Dalla Cina al Vietnam, dalle Filippine alla Cambogia, l’andamento della politica in Asia è sempre più legato a retaggi familiari e accentramenti di potere. Nell’era delle dinastie politiche asiatiche, l’ansia da successione prende il sopravvento. Concentrare il potere diventa cruciale. E la pandemia sembra avere agevolato questa tendenza.
Proteggere il lignaggio e promettere stabilità. Questo il messaggio proveniente da Est, dove consolidamento di dinastie politiche e centralizzazione del potere in mano a leader carismatici stanno guidando una nuova ondata di autoritarismo in Asia. Una tendenza che ha coinvolto tanto le democrazie come Filippine e Indonesia quanto i sistemi autocratici di Cina, Cambogia e Vietnam, e che si è trovata rafforzata nel mezzo della crisi pandemica. In sempre più paesi in Asia, la politica è un affare di famiglia.
La mentalità da oligarchia familiare è per molti paesi asiatici un retaggio difficile da abbandonare. La discendenza politica di famiglie come i Suharto in Indonesia o i Nehru-Ghandi in India hanno per decenni influenzato lo stile governativo di diverse nazioni nel periodo post-coloniale e recidere il cordone ombelicale di queste dinamiche non è impresa facile. Forse anche per questo, il fascino delle dinastie politiche sta nuovamente trovando spazio in tutta l’Asia.
Nelle Filippine, il nome dei Duterte regna sovrano, anche adesso che il momento dell’uscita di scena è arrivato per il presidente Rodrigo Duterte. Sua figlia, Sara Duterte, è candidata alla vicepresidenza alle elezioni del prossimo maggio. Una mossa ambiziosa ma vissuta con una punta di delusione dal padre, che non potendo ricandidarsi avrebbe voluto per la figlia la presidenza. Sono coinvolti in politica anche gli altri due figli, Sebastian e Paolo. Il primo è vicesindaco di Davao, feudo elettorale passato nelle mani prima del padre e poi della sorella. Il secondo è membro ed ex speaker della Camera dei rappresentanti filippina. Ma la discendenza dei Duterte non è l’unica a farsi largo nella scena politica del paese. In lizza alle presidenziali anche il rampollo di un’altra famiglia politica, Ferdinand Marcos Jr, figlio del defunto omonimo dittatore. Complessi da sradicare sono poi i clan politici, pervasivi e onnipresenti all’interno dell’amministrazione filippina. Uno studio della Manila University School of Government riporta a tale proposito che nel 2019 il 53% dei sindaci in carica nelle Filippine contava almeno un altro parente stretto coinvolto in politica. Cifra che sale all’80% guardando ai parlamentari. Nella più antica democrazia costituzionale d’Asia le “grasse dinastie” continuano a logorare le fondamenta della politica.
L’Indonesia potrebbe presto seguire le orme delle Filippine, e mostra i primi segni di una dinastia politica nascente ai vertici del paese. Il figlio del presidente in carica Joko Widodo (detto anche Jokowi), Gibran Rakabuming, dopo una vita passata a vendere pancackes ha deciso infatti di intraprendere la carriera politica e nel 2020 è diventato sindaco della città di Solo. La stessa dove anche il padre aveva governato. Sempre all’interno della famiglia presidenziale, il cognato di Jokowi, Bobby Nasution, è diventato sindaco di Medan. Un risvolto inaspettato nella storia familiare del presidente, che aveva guadagnato il favore del popolo indonesiano proprio grazie alle sue umili origini e alla mancanza di legami politici preesistenti. Ma il conto alla rovescia per le elezioni 2024 si fa pressante, e Jokowi potrebbe voler consolidare la sua discendenza prima di farsi da parte.
Decisamente più sereno in merito al futuro del suo lignaggio è invece il premier cambogiano Hun Sen, che lo scorso dicembre ha indicato il figlio Hun Manet, già capo delle forze armate del paese, come suo successore. “I padri vorranno sempre vedere i figli in posizioni di alto rilievo” ha dichiarato Hun Sen nel suo discorso di dicembre. “Chi dice il contrario, mente”, ha aggiunto. Dopo 36 anni di governo in un ambiente politico sempre più repressivo che ha messo al bando opposizione e dissidenti, Hun Sen ha le idee chiare: solo un suo “assassinio o una morte prematura” potranno ostacolare la sua discendenza politica. Per il momento però, il primo ministro non ha fretta e tiene stretto lo scettro del potere. Una eventuale successione non è prevista prima del 2028 e la candidatura del figlio dovrà comunque passare al vaglio dei membri del Partito popolare cambogiano.
Quando creare discendenze di sangue non è possibile, smussare i limiti dei mandati diventa una soluzione appetibile per mantenere il controllo. La Cina ha rotto il ghiaccio in questo senso quando nel 2018 ha annunciato la rimozione del vincolo presidenziale dei due mandati, spianando la strada per il proseguimento della leadership di Xi Jinping. Il terzo atto del presidente cinese sarà con ogni probabilità confermato il prossimo autunno durante il ventesimo Congresso del Partito comunista cinese e anche all’interno del Politburo Xi conta sempre più volti amici. Rimosso il limite al mandato presidenziale, il “nuovo timoniere” può continuare a gestire il paese senza intoppi, e la legittimità del Partito ne risulta rinvigorita. Dove molti osservatori occidentali hanno letto derive demagogiche e personalismi del presidente nella rimozione del terzo mandato, i più alti funzionari del Pcc in occasione del sesto Plenum dello scorso novembre hanno invece definito la dirigenza di Xi come “la chiave per determinare il futuro e il destino della Cina contemporanea”.
Come Xi, anche il leader del Partito comunista vietnamita ha ottenuto il terzo mandato al termine del quattordicesimo congresso del Partito comunista vietnamita del gennaio 2021, cosa che non accadeva dai tempi di Le Duan. Nguyen Phu Trong è alla guida del Pcv da oltre dieci anni, durante i quali la soglia d’età massima per l’ottenimento di diverse cariche, tra cui quella di segretario di partito e presidente della repubblica, sono state alzate due volte per concedergli di rimanere al potere. Conosciuto per la sua feroce campagna anti-corruzione con cui ha eliminato i suoi oppositori, da loro soprannominato il “segretario di tutto”, Trong è stato rinnovato ai vertici del Pcv per proiettare un’immagine di unità e stabilità nel paese. La gestione di successo della pandemia da Covid-19 e il generale andamento positivo dell’economia vietnamita hanno fatto passare in secondo piano l’eccezionalità di questo ennesimo mandato.
La spinta autocratica dei governi e la disuguaglianza sociale che ancora caratterizzano diversi paesi in Asia hanno creato terreno fertile per la crescita di retaggi politici di questo tipo, sempre più difficili da contestare. Il Covid-19 ha esacerbato questo fenomeno. Durante questi due anni di pandemia, sono tanti i leader asiatici che nel nome dell’emergenza sanitaria hanno ampliato il ventaglio dei propri poteri. Human Rights Watch e altre Ong interessate ai diritti umani guardano con preoccupazione a questa tendenza, che ritengono essere “deleteria per il corretto funzionamento dei sistemi politici”. Ma anche a fronte delle proteste, come quelle ancora in corso in Myanmar e in Thailandia, l’andamento della politica in Asia sembra sempre più vincolata a retaggi familiari e accentramenti di potere che, nel nome della stabilità e della continuità ideologica, non sembrano intenzionate a mollare la poltrona.
[Pubblicato su Gariwo]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.