Da una parte preoccupazione, dall’altra assuefazione. Mentre il mondo parla delle incursioni aeree cinesi, a Taiwan la notizia del giorno è il ricevimento di una delegazione di senatori francesi e dell’ex premier australiano Tony Abbott da parte della presidente Tsai Ing-wen. Nessun allarmismo, i cittadini continuano ad andare a lavoro e a svolgere le loro attività come se nulla fosse. Negli scorsi giorni, oltre 150 aerei cinesi sono entrati nello spazio di identificazione di difesa aerea taiwanese (di cui Pechino non riconosce l’esistenza), ma non si sono mai avvicinati più di 35 miglia nautiche dalle coste. “Il sentimento generale dell’opinione pubblica è di rabbia piuttosto che di paura”, spiega Jenjey Chen, caporedattore dell’agenzia di stampa taiwanese Central News Agency (Cna). I taiwanesi sono abituati alle tensioni con Pechino e non si sentono nel “posto più pericoloso del mondo” come l’ha definito l’Economist. Gli over 35 raccontano della paura provata, allora sì, per la terza crisi dello Stretto del 1995-1996. La risposta americana di allora e l’alto livello di retorica che permea tutto quanto si dica o si faccia su Taiwan hanno creato un sentimento di abitudine. Così come quasi nessuno fa caso al frequente sibilo degli aerei taiwanesi in volo per esercitazioni o per rispondere alle incursioni, in molti collegano queste ultime all’anniversario della fondazione della Repubblica Popolare (1° ottobre) e alle celebrazioni taiwanesi del 10 ottobre. Insomma, più una parata militare che un preparativo all’invasione, e magari un messaggio al Guomindang che ha appena eletto Eric Chu suo nuovo leader e alla ricerca di una linea politica in vista delle elezioni del 2024, momento forse decisivo per il futuro delle relazioni intrastretto.
Ma “nell’ultimo anno le incursioni sono diventate quasi una ricorrenza quotidiana”, dice Chen. Moltiplicare le incursioni aeree può avere un duplice effetto, economico e psicologico, sulle forze militari taiwanesi, chiamate a rispondere pur avendo meno mezzi a disposizione. E rendere le incursioni una cosa “normale” potrebbe causare un errore di lettura nel caso un’operazione reale venga scambiata per un’esercitazione. Il tutto mentre la zona grigia attorno a Taiwan viene allargata sia a livello operativo che infrastrutturale, per esempio con la costruzione di nuovi hangar nella provincia dello Zhejiang.
Nei prossimi giorni potrebbero esserci nuove manovre, dopo lo scoop del Wall Street Journal secondo cui membri dei marines e delle forze speciali americane stanno addestrando in segreto unità terrestri dell’esercito taiwanese da almeno un anno. Ad agosto, dopo un tweet del senatore repubblicano John Cornyn, il Global Times aveva paragonato l’ipotetica presenza fissa di militari americani in territorio taiwanese a una “invasione militare”, definendola “l’equivalente di una dichiarazione di guerra”. È dunque prevedibile che Pechino risponda non solo a parole. Nei mesi scorsi, i media cinesi avevano invitato l’esercito a inviare degli aerei direttamente sopra il territorio dell’isola principale di Taiwan. Una mossa che costituirebbe un rebus di difficile soluzione per Taipei e che moltiplicherebbe i rischi di un incidente. Il ministro della Difesa, Chiu Kuo-cheng, ha avvertito che entro il 2025 la Cina potrebbe aver maturato non solo la capacità ma anche la decisione di condurre un’invasione. Si ritiene il rischio non immediato, soprattutto per l’approssimarsi del congresso del Partito comunista che dovrebbe conferire il terzo mandato a Xi Jinping. Ma dal 2023 la situazione potrebbe cambiare e il governo ha aumentato l’urgenza degli avvertimenti, spesso sottovalutati anche per la bassa risonanza data tradizionalmente (su suo input) dai media taiwanesi. Da una parte per far uscire gli Usa e i loro partner asiatici dalla loro “ambiguità strategica”, dall’altra per evitare che in caso di minaccia imminente manchi tra i taiwanesi la prontezza (e la volontà) a combattere. E in quel caso, Kabul insegna, gli addestramenti americani contano poco.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.