Attraverso i suoi romanzi, Abe Kobo narra la parabola dell’uomo moderno, incastrato nella morsa di una società sempre più soffocante, incapace di trovare un modo di vivere conforme alla sua individualità e alienato. L’incontro segreto (1977), pubblicato da Atmosphere Libri nella traduzione di Gianluca Coci, non fa eccezione.
Abe Kobo, nato nel 1924 a Tokyo ma vissuto nella Manciuria durante l’occupazione giapponese (1932-1945), è senza dubbio uno dei più fulgidi autori della letteratura contemporanea nipponica. Spesso paragonato a Kafka, a cui si ispira chiaramente per la creazione della sua ultima opera Il quaderno canguro (1991), nel quale il protagonista si ritrova parte del corpo ricoperta da germogli di daikon svegliandosi un mattino nel suo letto, Kobo è maestro dell’assurdo: fra le pagine dei suoi manoscritti realtà e fantasia si fondono, dando vita a visioni oniriche in cui i personaggi stessi si perdono. Questo si raffronta anche nella struttura narrativa che utilizza: spezzata, che mescola passato, presente e futuro, provocando un lettore un senso di smarrimento ulteriore.
Grazie a questi elementi Abe Kobo, attraverso i suoi romanzi, narra la parabola dell’uomo moderno, incastrato nella morsa di una società sempre più soffocante, incapace di trovare un modo di vivere conforme alla sua individualità e alienato. L’incontro segreto (1977), pubblicato da Atmosphere Libri nella traduzione di Gianluca Coci, non fa eccezione.
L’evento che avvia la trama è l’arrivo improvviso di un’ambulanza che preleva la moglie del protagonista, inspiegabilmente e nel cuore della notte, per portarla in ospedale. L’uomo quindi si reca all’edificio per cercarla, interfacciandosi con i bizzarri personaggi che lo popolano. Il nosocomio è fisicamente un vero microcosmo a sé stante, comprendente negozi, zone residenziali, il cimitero. Sconfinato e labirintico al punto tale che non si capisce se l’interno sia l’esterno o viceversa.
L’autore disegna con le parole la rappresentazione allegorica di una società simil-autoritaria e distopica fittizia per criticare la nostra (reale): in realtà il complesso ospedaliero è un sistema con caratteristiche precise, fondato sul controllo tentacolare dei propri pazienti attraverso microspie, questi ultimi sfruttati per interessi personali del vice-direttore. Per sfuggire alla solitudine di quelle mura, i degenti, con il pretesto di una “passeggiata”, sfogano i loro impulsi sessuali attraverso degli incontri “segreti”; rigorosamente spiati e inconsapevoli fonti di introiti (le registrazioni audio vengono noleggiate dai membri di un club che hanno la passione per questo genere di ascolti).
Partendo da questo assunto, due sono le principali tematiche affrontate da Abe Kobo: il sesso come sfogo della solitudine e la critica al modus operandi dei dottori. In primo luogo, la comunità che anima l’ospedale si rifà a una concezione etica totalmente differente rispetto alla nostra: le relazioni interpersonali sono basate solo ed esclusivamente sull’atto sessuale, di qualsiasi genere. Lo stesso luogo è caratterizzato da elementi che si rifanno ad esso: quadri con cavalli copulanti, l’edificio principale del complesso che richiama una forma fallica, la competizione di orgasmi in occasione della vigilia dell’anniversario dell’ospedale.
Il sesso ha una funzione catartica per il paziente, che riesce a combattere così la solitudine della malattia. Ed è un gesto quasi caritatevole verso il partner che si trova di fronte, se pur di prassi.
Emblematico un passaggio del discorso che il vice-direttore ha con il protagonista: “Nelle prigioni e nelle caserme, raccontare storie di sesso è il modo migliore per farsi degli amici. […] Si tratta di casi, e le garantisco che ce ne sono molti altri, in cui il sesso svolge una funzione di ricostruzione delle relazioni interpersonali. Ora, è evidente che la società dei malati non sia esattamente la stessa cosa […], e difatti non c’è bisogno di temere lo sguardo altrui, né si può ravvisare una carenza endemica di relazioni umane”.
Il ricoverato, a differenza di un detenuto, pur nella sua condizione, ha l’occasione di relazionarsi con altre persone e quindi (nell’ospedale del romanzo) sfogare carnalmente la sua solitudine. E ugualmente avviene per tutti coloro che ci lavorano perché i dottori (secondo la visione del vice-direttore) sono essi stessi dei pazienti.
Con questa rappresentazione, Abe evidenzia il cambiamento sociale che il Giappone vive negli anni del boom economico: influenzato dall’American Dream, così come avviene oltre la Cortina di ferro, il giapponese medio tende a pensare molto più ai suoi interessi personali e meno a quelli della comunità (certo non quanto un abitante dell’Europa Occidentale). Questo cambio di atteggiamento porta, naturalmente, a una vita maggiormente solitaria e allo sviluppo di un certo grado di egoismo; quindi all’alienazione del singolo. Le relazioni fra individui diventano più fredde e distaccate, e ciò si riflette conseguentemente sulle relazioni sessuali.
L’autore sembra quindi suggerire al lettore una sorta di prospettiva alternativa: cosa accadrebbe se esistesse una società in cui vi sono sì relazioni interpersonali più “vive” (nonostante una condizione di solitudine fattuale), ma dove il sesso, interesse del singolo che coincide con quello comunitario, è sostanzialmente alla base di tutto?
Per evidenziarne i contrasti, ecco che il protagonista entra in contatto con il mondo dell’ospedale: già dal principio viene identificato come un errore, e per correggere questa stortura tutte le persone con cui viene in contatto cercano di plagiarlo e di depistare la ricerca della moglie. Non a caso l’uomo ha un dubbio: “sembra quasi che vogliano dirmi che se ho intenzione di ritrovare mia moglie, devo prima di tutto ritrovare me stesso”.
E viene più volte sollecitato a farlo, come se scavando dentro il proprio Io potesse capire cosa ci sia di sbagliato in lui. Del resto, l’ospedale richiama una società autoritaria e l’auto-critica è d’uso comune verso i dissidenti. Il suo provenire da un contesto diverso viene rimarcato più volte ma sono di particolare importanza le parole che gli rivolge la segretaria, dopo l’ennesimo rifiuto delle sue avances:
“Possibile che lei debba pensare solo a sé stesso? È disgustoso! “
Essendo parte di un sistema che predilige il tornaconto personale, l’uomo, non piegandosi a richieste sessuali più o meno esplicite, non riesce ad amalgamarsi con la mentalità comune dell’ospedale. Ne risulta che la sua alienazione non è compatibile con questo mondo “altro” e di conseguenza si ritrova ad estraniarsi anche in questo ambiente.
Ciò che propone Abe Kobo quindi non risolve lo straniamento di partenza ma ne aggiunge dell’altro. Inoltre la società fittizia stessa non rappresenta uno step successivo della specie umana ma un suo passo indietro, caratterizzato unicamente dallo sfogo di istinti primitivi e dall’imbruttimento fisico e morale:
“Se la storia degli animali è una storia di evoluzione, quella del genere umano sarà una storia di regressione. Viva i mostri!”, inveisce il vice-direttore nelle pagine finali, diventato un cavallo antropomorfo nel corso del romanzo.
La seconda tematica di questa storia è la feroce critica generalizzata verso la figura del medico e il suo modo di lavorare: il personaggio del vice-direttore incarna gli aspetti negativi di tale professione, in particolar modo l’accanimento terapeutico: esemplare in questo senso l’esperimento che compie su sé stesso per risolvere il suo problema d’impotenza. Orrendamente sfigurato, riuscirà comunque nello scopo. Il tentativo si collega perfettamente alla sua, personalissima, filosofia ossia che un buon medico è anche un buon paziente: solo vestendo i panni del malato il medico sarà in grado di comprendere il dolore altrui. Ciò è assolutamente condivisibile ma il problema di fondo è che il “cavallo” vuole vivere in una società di malati permanenti, e così pensando va da sé che il lavoro dei dottori e il significato dell’esistenza di luoghi di degenza vengono sminuiti.
Il protagonista, provenendo dalla nostra società, in cui i malati vengono effettivamente curati, viene etichettato da subito come una persona sana e quindi totalmente inadatto a confrontarsi con un mondo simile. Un ulteriore spunto di riflessione de L’incontro segreto è il controllo capillare di ogni persona all’interno dell’ospedale.
Nell’ attuale epoca delle connessioni ogni volta che navighiamo in Internet ci ritroviamo “faccia a faccia” con i cookies, che reperiscono frammenti di informazioni dell’utente per fornirgli un’esperienza personalizzata, per esempio. Oggi raccogliere informazioni è semi-normalizzato e accade potenzialmente in ogni momento della vita: iscrivendosi su un social, dando il consenso ad utilizzare i nostri dati solo per giocare un momento con delle app, passando per una strada dove c’è una videocamera e così via. Si pensi, inoltre, che la diffusione di dati sensibili è diventato uno strumento di ricatto. Coloro che spiano gli incontri “segreti” nel romanzo vendono, per l’appunto, le registrazioni di questi appuntamenti.
“Il sistema di ascolto segreto è cresciuto a un livello incontrollabile e continua a fare incetta di dati. […] Mi sono bastati tre giorni in cui ho lavorato in sala di sorveglianza per imparare a riconoscere centinaia di quei fanatici, uomini e donne”. E questo passo può risvegliare nell’uomo del XXI secolo una delle paure più diffuse di questi tempi: la videocamera del mio pc portatile sta spiando la mia sfera privata?
È una lettura a cui Abe Kobo naturalmente non ha pensato ma che il lettore moderno potrà apprezzare.
Di Marco Cerutti
*Nato a Domodossola nel 1997 e studente di lingua e letteratura giapponese presso l’università di Torino. Lettore incallito e grande appassionato di Storia, intraprende la via del giornalismo dopo aver letto In Asia di Tiziano Terzani.