Un anno fa l’esperienza del villaggio di Wukan, segnò un momento decisivo nella storia recente cinese. La frazione di pescatori che si era ribellata ai propri funzionari, scacciandoli e impiantando un auto governo, aveva fatto sostenere ai media internazionali di essere di fronte alla nuova Comune di Parigi in Cina. Gli attivisti, gli abitanti del villaggio, si erano guadagnati l’attenzione mondiale e più di tutto quella della politica nazionale, presa tra guerre e sotterfugi per arrivare al momento decisivo del diciottesimo congresso del Pcc.
L’allora segretario del Partito del Guangdong Wang Yang, a sua volta, ottenne molte lodi e stima dalla stampa internazionale: non solo non agì utilizzando la forza, come spesso era accaduto in casi analoghi, ma anzi cercò il dialogo con gli insorti, concedendo elezioni che avrebbero visto la vittoria dei leader della rivolta. Un anno dopo però, l’esperimento sembra essere in uno stallo che fa già parlare di “fallimento dell’esperienza democratica di Wukan”. I fattori che contribuiscono a questa lettura sono tanti e non risiedono solo nella vicenda del villaggio: hanno origine nelle caratteristiche della cultura, della politica e di quella che potremmo definire “società civile” cinese.
La beffa dei tre quarti, alla cinese.
Forse in futuro un novello Ignazio Silone cinese potrà raccontare la storia. Come i contadini di Fontamara, si potrebbe infatti sostenere che gli abitanti di Wukan siano stati ingannati, tecnicamente, con una ricaduta sociale di questa “frode” dalle proporzioni inaudite. Le elezioni, la democrazia, avrebbero dovuto garantire, secondo i partecipanti, una possibilità molto chiara: il ritorno delle terre confiscate dai funzionari, motivo per il quale erano partite le proteste cui aveva soffiato benzina sul fuoco la morte di uno dei principali rivoltosi tra le mani della polizia locale. Peccato che al momento delle elezioni i giochi fossero già fatti: la terra era già stata venduta, era già irrecuperabile. Si è così fatto credere che l’esercizio democratico avrebbe potuto risanare la sconfitta, ben sapendo che non sarebbe stato possibile.
Uno smacco per la “democrazia” verso la quale gli abitanti di Wukan non nutrivano fiducia a prescindere. Percorsero quella strada solo perché pareva garantire il ritorno immediato delle terre. “Certo che può essere considerato oggi un fallimento – spiega a China Files il professore Johan Lagerkvist, dello Swedish Insitute of International Affair, autore dell’articolo “The Wukan Uprising and Chinese State-Society Relations: Toward Shadow Civil Society?” nel volume International Journal of Chinese Studies (Dicembre 2012) – nel senso che la leadership del villaggio sotto Lin Zulan (leader della protesta e nominato dalle elezioni capo del villaggio ndr) incontra indifferenza da parte dei leader provinciali e malcontento dagli abitanti del villaggio che hanno votato per lui. Pensano che non sia stato in grado di raggiungere il risultato sperato. Ma questo fallimento non può essere attribuito a lui. La sua ricerca si è impantanata nel sistema politico cinese, che ancora è disfunzionale”.
A Wukan sono infatti intervenuti alcuni fattori specifici che hanno fatto credere ad un momento di svolta. Rispetto agli altri eventi che vengono classificati dalla Cina come “incidenti di massa”, oltre 180 mila all’anno secondo stime informali, Wukan può essere definito un evento speciale: “è stato un caso molto particolare, con un risultato iniziale straordinario a causa di una combinazione di fattori: l’utilizzo della comunicazione digitale, una buona cooperazione tra i giovani e le persone molto anziane nel sistema dei clan e l’alto interesse di un ufficiale nella risoluzione pacifica dei conflitti”.
Il potere centrale
Secondo lo studioso cinese Jia Xijing, “in Cina, il rapporto tra la società civile e lo stato è sempre di fronte a un dilemma. Le organizzazioni della società civile vogliono liberarsi dalle interferenze da parte dello stato e al tempo stesso cercano di fare affidamento sul governo” (Zhongguo Gongmin Shehui Zhishu Baogao, all’interno del “Rapporto sulla società civile in Cina, 2008). Possiamo sostenere dunque che a Wukan si sia messa in azione un lembo, per quanto precario, della società civile cinese?
E’ opportuno specificare alcuni elementi che consentono un anno dopo, di sciogliere alcuni nodi interpretativi. In primo luogo le proteste furono da subito rivolte contro le autorità locali, non contro il Partito Comunista. I laobaixing, termine colloquiale per indicare la “gente comune”, mantiene un forte senso di stima nei confronti dei dirigenti nazionali. Chi finisce nell’occhio del ciclone sono i funzionari locali, spesso al centro di squallidi casi di corruzione. Per questo quando Wang Yang, allora segretario del Pcc della regione, ha mandato il suo inviato, la svolta è arrivata in fretta. Lo stesso Wang, che passa per essere uno dei più liberali tra i leader cinesi (e recentemente bocciato per un posto nel Comitato Centrale del Politburo) pochi giorni dopo la soluzione del caso Wukan e le conseguenti elezioni, aveva specificato: “abbiamo semplicemente applicato la legge e la costituzione”, facendo un riferimento – alla carta costituzionale – che lo metteva al riparo da critiche potenziali, tanto dall’alto quanto dal basso.
I clan
Tra gli elementi, infine, che fanno propendere i bilanci su Wukan verso un segno negativo, ci sono le tipiche dinamiche della società cinese. Gli eletti e in generale le persone che hanno raccolto intorno a sé le proteste prima e la “democrazia” dopo, appartengono ai clan più in vista, da sempre, del villaggio. Sono il cuore di quella che viene definita la società civile ombra. Come spiega Lagerkvist, “si tratta di comunità – talvolta sono gruppi veri e propri – che non sono certo registrati come una ong o un’associazione, ma che di fatto a livello sociale, svolgono ancora tali funzioni. Nascono, esistono, e a volte muoiono, ma non appaiono mai sui libri di governo. Possono diventare molto visibili in tempi di crisi, come è successo a Wukan o dopo il terremoto di Wenchuan nel Sichuan nel 2008”.
[Scritto per il Manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.