Obama non va in estremo Oriente, trattenuto in patria dallo shutdown del governo. È un brusco stop per il “pivot to Asia” del presidente Usa, che inquieta gli alleati storici e lascia spazio alla "offensiva dello charme” cinese, basata su solidi rapporti economici. Ma un’eventuale crisi a Washington non fa dormire sonni tranquilli neanche a Pechino. Obama cancella il suo viaggio a Bali per il summit dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation, 5-7 ottobre) e in Brunei per quello dell’Asean (Association of South-East Asian Nations, 9-10 ottobre) e ci manda il gaffeur John Kerry. Brutto colpo per il “pivot to Asia” del presidente Usa, bloccato in patria dall’opposizione della camera, che boccia la legge di bilancio federale e gli impone un maggiore focus sui problemi interni e meno grilli per la testa sullo scacchiere internazionale. Bloccato dalla democrazia, a ben vedere.
La mente corre inevitabilmente all’altro fatto del giorno, la morte del 102enne eroe militare vietnamita, il generale Giap, vincitore di due guerre contro gli imperialismi francese e Usa del secolo scorso: prima con la guerra, oggi con gli inghippi della politica, “Yankee go home” sembra echeggiare attraverso tre generazioni.
Come quarant’anni fa, quando la fine dell’invasione del Vietnam fu decretata dall’opinione pubblica statunitense, stufa di vedere in televisione bare coperte dalla bandiera a stelle e strisce, anche qui è il fattore interno a mettere il bastone tra le ruote della politica di contenimento americana (contenere chi? Ma la Cina, ovviamente), anche se a ben vedere c’entra meno l’emotività collettiva e ben più la lotta politica con un occhio al portafoglio.
In pratica, la camera a maggioranza repubblicana ha detto no alla legge di bilancio già approvata dal senato a maggioranza democratica, che dovrebbe elevare il tetto di 16,7 trilioni di dollari (16.700 miliardi) del deficit federale. La posta in gioco reale è l’Affordable Care Act (il cosiddetto Obamacare), la legge che dovrebbe estendere l’assicurazione sanitaria a milioni di statunitensi. Varato nel 2010 e in procinto di entrare in vigore ora, sconta l’opposizione dei repubblicani che esigono tagli sostanziali.
Così, per la prima volta da diciassette anni, negli Usa è scattato lo “shutdown”, cioè il blocco di tutti i servizi non essenziali dell’amministrazione federale. Si stima che siano a rischio gli stipendi di circa 800mila lavoratori.
In Asia, Obama avrebbe dovuto premere sull’acceleratore della Trans-Pacific Partnership, un accordo commerciale con dodici Paesi dell’area che, guarda caso, esclude la Cina. A Pechino, dove la forza dell’economia dispiegata sul lungo periodo è tenuta in grande stima, lo considerano il principale strumento del containement nei propri confronti, molto più delle portaerei Usa a piede libero nell’area.
Xi risponde quindi con una propria Regional Comprehensive Economic Partnership, un accordo che comprende più Paesi e – indovinate un po’ – non prevede la presenza Usa.
Per non lasciare il terreno totalmente sgombro, Obama ha quindi spedito da quelle parti il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, che ha visitato Corea del Sud e Giappone per rafforzare le alleanze. Hagel è stato raggiunto a Tokyo dal segretario di Stato John Kerry, per la firma di un accordo di sicurezza che per la prima volta consentirà il dispiegamento di droni – un vero marchio distintivo dell’amministrazione Obama – nel Sol Levante.
Ma le perplessità dei più stretti alleati orientali sono comunque palpabili. A Seul ci si chiede: se la Corea del Nord ci attaccasse, Washington farebbe dietrofront come in Siria? E a Tokyo fremono: nel conflitto latente con la Cina sulla questione delle isole Senkaku/Diaoyu, gli Usa ci spalleggiano o no? Nel gioco delle parti, Obama è tirato per la giacchetta anche dalla stampa coreana che da giorni parla di “nuovo isolazionismo” statunitense.
La Cina si fa sorniona gli affari suoi e può forse ben gioire, dato che a questo punto la parte del leone spetta al presidente Xi Jinping, che sta già scorrazzando per mezzo Oriente. Xi l’ha presa larga: arriva all’Asean (e, prima, all’Apec) dopo una tappa in Indonesia – primo presidente cinese a fare un discorso ufficiale davanti al parlamento di quel Paese – e una in Malaysia. In entrambe le occasioni, ha promesso caterve di soldi in investimenti, dato che “l’offensiva dello charme” cinese – l’antidoto al “pivot to Asia” obamaniano – tende a basarsi sul fascino molto “hard” del business più che sul soft power, in cui la Cina è (ancora?) carente.
A Jakarta, Xi ha promesso di raggiungere entro il 2020 la quota di un trilione di dollari (mille miliardi) di investimenti nei dieci Paesi membri dell’Asean, annunciando l’istituzione di una “banca delle infrastrutture” a controllo cinese che sottragga spazio alle varie “banche dello sviluppo” Usa-centriche. Non sono promesse da marinaio se si considera che, ad eccezione delle Filippine, tutti i Paesi dell’Asia Orientale annoverano già la Cina come proprio principale partner commerciale. Per Pechino, quel trilione di dollari significherebbe triplicare il proprio investimento nel giro di sette anni, mentre gli Usa dovrebbero quintuplicarlo: promessa neppure pronunciabile nel momento in cui a Washington stanno scannandosi sul deficit.
Così, Cina e Malaysia hanno concordato venerdì di elevare i rapporti bilaterali a una “partnership strategica globale”, che nel sottile gioco dei termini diplomatici cinesi significa molto di più di una semplice partnership strategica (come è quella con l’Indonesia, per esempio). In soldoni, maggiore cooperazione militare e moltiplicazione per tre del commercio bilaterale, fino a raggiungere 160 miliardi dollari entro il 2017.
Ma la Cina può gioire davvero? Se si osserva nel merito il problema del deficit Usa, oltre Muraglia hanno buone ragioni per preoccuparsi.
Bill Bishop, acuto osservatore di cose cinesi di stanza a Pechino, ritiene per esempio che una paralisi prolungata sulla questione del deficit statunitense potrebbe danneggiare il Dragone, “non solo perché possiede tanti titoli del Tesoro Usa, ma anche perché ogni significativa turbolenza dei mercati finanziari potrebbe sconvolgere l’economia già traballante della Cina”.
Già nel 2008, di fronte alla crisi dei mutui subprime che si trasformò in disastro finanziario globale, Pechino accusò Washington di irresponsabilità: ma come, noi vi compriamo il debito e voi provocate una crisi che ammazza le nostre esportazioni in Occidente? E poi, per uscirne, pensate bene di svalutare il dollaro, rendendo carta straccia i biglietti verdi che abbiamo accumulato nei nostri forzieri?
Ed ecco che oggi un editoriale dell’Agenzia Nuova Cina rivela la medesima irritazione trattenuta a fatica, perché il governo Usa sarà costretto a dichiarare default se non riuscirà a risolvere la questione del deficit entro il 17 ottobre, creando così inevitabilmente instabilità su tutti i mercati.
Xinhua se la prende con il “gioco rischioso interpretato da democratici e repubblicani negli ultimi due anni”, riferendosi a un simile conflitto sull’approvazione del bilancio verificatosi nel 2011 e al tiro alla fune sul fiscal cliff di inizio 2013.
“Gli Stati Uniti, unica superpotenza del mondo, si sono impegnati in una spesa irresponsabile per anni – si legge -. Con l’assenza di un’unità politica che possa correggere i suoi errori, una Washington [dal comportamento del tutto] anormale sta ora tirando troppo la corda della fiducia riposta nella sua leadership”.
A Pechino, la fiducia l’hanno persa da un pezzo. No – pensano – questa fantomatica democrazia, che permette a un’opposizione di bloccare le decisioni di chi governa, è un marchingegno oliato davvero male; e le politiche unilaterali di una sola superpotenza, che provocano ricadute globali, sono un danno per tutto il pianeta.