Il parlamento locale dello stato del Maharashtra (dove c’è Mumbai, tra le altre) martedì 12 aprile ha passato una legge che rilegalizza i cosiddetti dance bar, o beer bar: locali dalla mitologica perdizione in cui ballerine provenienti da tutto il paese danzano ammiccanti sulle note delle più famose canzoni di Bollywood pensate appositamente per i passaggi sexy pensati per le stralette dell’industria cinematografica indiana. I dance bar erano stati messi fuorilegge nel 2005 ma ora sono tornati, alimentando il jet set opulento di ricchi e meno ricchi nella città dello spettacolo.Il tema della reintroduzione dei dance bar solleva questioni morali e di opportunità economica che smascherano un certo puritanesimo ostentato da gran parte della società indiana.
I dance bar – sostanzialmente degli strip-club senza strip ma col medesimo meccanismo di lancio di banconote e sollecitazione della lussuria maschile – all’epoca del boom economico indiano post riforme economiche, anni ’90, facevano girare un sacco di soldi e rappresentavano una fuga parziale dalla rigidità dei costumi indiani. Cicrostanze, chiaramente, che ricalcavano la piramide socioeconomica della nuova India capitalista.
Soldi, sesso, amore, morte e show business
In Maximum City, libro fondamentale su Bombay scritto da Suketu Mehta e pubblicato in Italia da Einaudi, ci sono una serie di capitoli dedicati interamente al mondo dei dance bar. Che Mehta, agli inizi degli anni Duemila, descriveva così (traduzione approssimativa mia dall’originale in inglese):
Ci sono diverse centinaia di bar a Bombay, chiamati beer bar o ladies’ bar o dance bar. In periferia, come a Chembur o Malad, sembra che ce ne sia uno ad ogni isolato. In questi bar, delle giovani ragazze vestite di tutto punto ballano su palchi decorati in modo stravagante sulle note di canzoni hindi, e gli uomini vanno a vederle, le inondano di soldi e si innamorano. Questo mondo, che le ballerine e i loro clienti chiamano bar line, esiste solamente a Bombay, e per me rappresenta il croceviadi tutto ciò che rende questa città un posto affascinante: soldi, sesso, amore, morte e show business.
Nel libro, Mehta si addentra nella bar line diventando amico di una tra le più popolari ballerine dell’epoca, che chiama Monalisa, attraverso la quale riesce ad esplorare la connivenza di imprenditoria corrotta, mafia, sicari, papponi, spacciatori, tradimenti e droga che costituiva l’anima dei beer bar. Giovani imprenditori o figli di che spendono milioni di rupie per corteggiare ballerine, sfoggi di cameratismo alcolico lontani dagli occhi indiscreti delle autorità – spesso comunque complici – e sogni infranti di giovani bellezze che dai villaggi dell’India si trasferiscono a Bombay in cerca di fortuna, fama, una parte a Bollywood, e finiscono – chi per scelta, chi per necessità – a fare le item girl in playback.
Per questo la reintroduzione delle licenze per i beer bar a Mumbai di fatto mostra l’inevitabile flessibilità dell’amministrazione dello stato – governato dal partito conservatore hindu Bharatiya Janata Party (Bjp) – di fronte alle spinte di chi in questi locali si divertiva e di chi in quei locali ci campava.
Nel 2005 maggioranza e opposizione nello stato avevano trovato un’insolita convergenza nel chiudere tutti i beer bar della città, per «prevenire attività immorali, il traffico di donne e per la salvezza delle donne in generale»; 11 anni dopo, la proposta di legge che ribalta il verdetto precedente – dopo una lunghissima campagna portata anche nelle aule dei tirbunali – è passata all’unanimità, senza un minuto di discussione.
Non solo donne sfruttate
La nuova legge prevede che i nuovi bar possano essere aperti a un minimo di un chilometro di distanza da scuole o luoghi di culto, possano stare aperti dalle 18 alle 23:30 e che non venga servito alcol nella «zona della performance». C’è anche una multa di 25mila rupie (poco più di 300 euro) e pene detentive fino a cinque anni per chi venga beccato in «atti osceni» o in casi di «sfruttamento» delle ballerine.
Se da un lato si teme che la riapertura dei beer bar possa incentivare lo sfruttamento e il diffondersi di «attività immorali», esiste anche – grazie a dio! – un dibattito sul diritto delle donne di perseguire in sicurezza e rispetto una carriera all’interno della bar line. Lo spiega bene un lungo articolo di The Wire che, tra l’altro, ricorda come la chiusura dei beer bar abbia significato la perdita del posto di lavoro per almeno 75mila donne. Che non hanno bisogno di uno stato moralizzatore, ma di un’amministrazione che permetta loro di decidere in libertà il proprio mestiere.
[Scritto per Eastonline]