A che punto è il progetto di oleodotto tra Russia e Cina

In by Simone

Sessantunomila barili di petrolio pompati ogni giorno dalla cittadina di Taishet, nella regione russa di Irkutsk, al terminal petrolifero di Daqing, nella provincia cinese di Heilongjiang.

È ancora in fase di test la diramazione meridionale dell’Espo, l’Oleodotto Siberia orientale-Oceano Pacifico, eppure già adesso i suoi numeri sono sufficienti a dare un’idea di quale trasformazione questa infrastruttura sia destinata a produrre negli equilibri geopolitici regionali. Se poi si considera che dal primo gennaio l’impianto dovrebbe entrare in piena attività, trasferendo quotidianamente 300mila barili di greggio (equivalenti a circa 250mila tonnellate), è facile rendersi conto che più che di un semplice mutamento si deve parlare di una vera rivoluzione, con ripercussioni che supereranno di gran lunga i confini del continente asiatico.

Fortemente sostenuto dal primo ministro russo Vladimir Putin, il progetto dell’Espo prevede la costruzione di 4.700 chilometri di condutture che collegheranno Taishet a Kozmino, sul Pacifico. Una volta ultimata, la più lunga infrastruttura petrolifera del mondo garantirà a Mosca la possibilità di estendere i propri tentacolari interessi al sempre più ricco e sviluppato mercato asiatico dell’energia, consentendole quella parziale emancipazione dal problematico partner europeo che l’ex capo del Cremlino ha sempre sognato.

In questo contesto, gli interessi russi sono concentrati principalmente sulla Cina. L’Espo avrà infatti uno “sperone”, che si staccherà dalla conduttura principale per raggiungere la frontiera cinese e da qui arrivare a Daqing, attraverso un percorso lungo 70 chilometri. La sua realizzazione è il frutto di 14 anni di intense trattative tra Mosca e Pechino, iniziate nel 1996 dal presidente russo Boris Eltsin e da quello cinese Jiang Zemin e protrattesi per quasi tre lustri tra ritardi e ostacoli di natura tecnica, economica e politica.

Solo grazie agli accordi recentemente sottoscritti da Putin e dal premier cinese Wen Jiabao nel quadro del terzo Forum economico russo-cinese, il progetto è divenuto operativo. I lavori per la diramazione cinese sono cominciati nell’aprile dell’anno scorso, quando Mosca e Pechino si sono accordate su un maxi-prestito da parte cinese del valore di 25 miliardi di dollari, da ripagare attraverso le forniture di greggio: 300mila barili al giorno per 20 anni, a partire dal 2011.

La parte russa della diramazione è stata inaugurata alla fine di agosto dal primo ministro Vladimir Putin, impaziente di battere “la via asiatica” dei rifornimenti energetici. La parte cinese, invece, è stata aperta alla fine di ottobre: secondo quanto dichiarato alla stampa da Lu Jicheng, responsabile del progetto, l’impianto entrerà in funzione gradualmente e con il procedere dei test la quantità di greggio trasferita sarà progressivamente innalzata da 60 a 300mila barili al giorno.

Fino a questo momento le forniture russe al Paese della Grande Muraglia sono state inferiori alle loro potenzialità e alle esigenze cinesi: Mosca è al quinto posto tra i fornitori di Pechino nonostante sia il secondo produttore ed esportatore mondiale di greggio dopo l’Arabia Saudita. Ma le cose sono destinate a cambiare nel giro di poche settimane: con l’inizio del nuovo anno la Cina potrà contare su una maggiore sicurezza energetica e una drastica riduzione dei costi di approvvigionamento rispetto a quelli fino ad oggi sostenuti per le attuali rotte, che partono dal Medio Oriente e attraversano lo Stretto di Malacca.

L’intesa tra le due potenze, comunque, ha anche una rilevante componente finanziaria. La costruzione dell’oleodotto ha coinvolto la società russa Transneft, che ha il monopolio degli oleodotti russi, e la grande compagnia statale cinese gas-petrolifera Cnpc. Il Dragone però non si è impegnato a concedere crediti solo alla prima, ma anche alla Rosneft, una major russa controllata dallo Stato e fortemente indebitata con le banche occidentali, alle quali deve restituire i finanziamenti con cui ha pagato la propria espansione.

Lo scorso ottobre la Rosneft ha visto crollare il suo valore in Borsa e il denaro promesso da Pechino rappresenta un’ancora di salvezza per una delle principali compagnie russe, di cui è presidente l’attuale vicepremier Igor Sechin, braccio destro di Putin. Giochi di potere politici che si intrecciano con interessi economici, aumentando la preoccupazione con cui l’Unione europea e gli Stati Uniti guardano alla neonata alleanza tra Mosca e Pechino.

*Paolo Tosatti -Laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra e per il settimanale Left-Avvenimenti.