Mentre i cinesi riscoprono i tradizionali alimenti proteici vegetali, come il tofu e il seitan, il governo sta incentivando lo sviluppo di nuove tecnologie per la produzione di sostituti della carne o di carne coltivata in laboratorio, con potenziali grandi benefici ambientali a livello mondiale. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Clicca qui per le altre puntate
Quella del copiare, in Cina, è una vera e propria arte. Non ha un’accezione negativa ed è piuttosto un omaggio, un riconoscimento, che in epoca moderna ha assunto anche connotazioni commerciali e a volte ingannevoli (chiedere alle migliaia di bambini delusi dalla PolyStation). In Cina si possono copiare giocattoli, opere d’arte, prodotti tecnologici e anche intere ricette, utilizzando ingredienti sostitutivi che replicano il sapore di quelli originali.
Secoli prima degli “Impossible Burger” o dei prodotti di Beyond Meat – che riproducono hamburger, salsicce e altri prodotti di origine animale partendo da proteine vegetali – i cinesi già avevano una radicata tradizione di cibi che fingevano di essere ciò che non erano. Come ha scritto l’autrice ed esperta di cucina cinese Fuchsia Dunlop sull’Economist, in epoca Song 宋 (960-1279) i ristoranti servivano «imitazioni del pesce palla, tartaruga dal guscio molle o carne di cervo arrostita realizzate con altri ingredienti, non necessariamente privi di carne».
Fin dal periodo Tang 唐 (618-906) c’erano poi vari alimenti vegetariani (sùshí, 素食) che ricordavano per consistenze e sapori i più tradizionali piatti con all’interno maiale, pollo o montone. Si possono definire “fang huncai” (fǎng hūncài, 仿 荤菜), imitazioni di un piatto a base di carne. Ma per risalire alle origini del vegetarianismo in Cina bisognerebbe andare fino all’epoca degli Stati Combattenti (453 a.C.-221 a.C), e per qualcuno persino prima, all’antica dinastia Zhou 周 (1100 a.C.-256 a.C).
Nonostante le forti influenze buddiste sulla diffusione di una dieta vegetariana, l’utilizzo di prodotti vegetali nella cucina cinese si ritiene connesso soprattutto a ragioni di matrice culturale (lo stesso Confucio sosteneva di mangiare poca carne, ad esempio). In Cina sono nati il tofu (dòufu, 豆腐) – che si produce generalmente facendo cagliare la spremuta dei fagioli di soia, che poi viene pressata – e il seitan – che è il glutine estratto da vari tipi di cereali -, ovvero due degli alimenti proteici vegetali più diffusi e utilizzati all’interno delle diete vegane o vegetariane. E sempre alla Cina (o alla cucina asiatica in generale) si devono molte delle ricette vegetali più sofisticate e saporite che si possono trovare oggi sui social e sui libri di cucina.
Pur avendo una lunga tradizione di cibo vegetariano, in Cina si è sempre mangiato carne con regolarità. A partire dalla fine degli anni Settanta, però, la crescita economica e il conseguente arricchimento generale della popolazione hanno causato uno spostamento nelle abitudini alimentari dei cinesi, che hanno introdotto nella propria dieta molta più carne di quanto non potessero permettersi prima del boom economico. Il risultato è che la Cina oggi consuma oltre il 27% della carne prodotta a livello mondiale, un dato due volte superiore a quello degli Stati Uniti, che vantano comunque un consumo pro-capite annuale molto più alto (124 chili contro i 45 della Repubblica popolare). Ma qualcosa sta nuovamente cambiando.
Da qualche anno, trainata dalle generazioni più giovani, la domanda di prodotti a base vegetale è tornata a salire e in molte città cinesi hanno iniziato ad aprire decine di ristoranti vegetariani o vegani. Spesso si tratta di locali di alta cucina (22 di questi hanno almeno una stella Michelin), ma più in generale sono ristoranti che offrono ricette moderne o appartenenti alla tradizione cinese, in alcuni casi originariamente a base di carne, rivisitate utilizzando tofu, pelle di tofu, konjac, seitan, funghi, patate e altri alimenti vegetali con i quali ricreare le consistenze e i sapori dei piatti originali, come l’anatra croccante o il pollo Gong Bao. E la gran parte di chi li prova sostiene di non sentire alcuna differenza.
Le ragioni dietro questo ritorno del vegetale sono varie. La maggioranza di chi sceglie di provare la cucina vegetariana lo fa per ampliare la propria dieta, riducendo e non eliminando completamente il consumo di carne, principalmente per motivi di salute personale. A questo si aggiungono ragioni etiche (per il trattamento degli animali) e ambientali, legate alle emissioni di gas serra prodotte dagli allevamenti intensivi.
La conseguenza è che da anni in Cina, oltre a essere aumentato il consumo di tofu e di altri alimenti vegetali tradizionali, stanno nascendo sempre più aziende che producono dei sostituti della carne partendo da proteine vegetali, intenzionate a competere con le big americane del settore. Non è semplice, visto che con questo tipo di prodotti è più facile riprodurre hamburger o salsicce, alimenti non così frequenti nella dieta di una persona cinese, che cucina più comunemente con tagli di carne non processati.
Più promettenti sembrano essere le start-up cinesi di carne coltivata, cioè prodotta in laboratorio partendo da cellule animali. In questo caso si tratta di vera e propria carne, non di un surrogato che tenterebbe di ricrearne i sapori e i colori, il cui consumo genererebbe però gli stessi benefici ambientali delle diete a base vegetale. Coltivare carne in laboratorio significherebbe ridurre non solo le emissioni, ma anche diminuire drasticamente l’utilizzo di antibiotici, acqua e mangimi destinati ai capi di bestiame. Quello dell’alimentazione animale non è un tema da sottovalutare, soprattutto per la Cina, che importa oltre l’80% della soia che consuma, con una grande percentuale destinata agli allevamenti. Senza contare che la Repubblica popolare detiene meno del 10% delle terre coltivabili nel mondo, mentre deve sfamare circa il 20% della popolazione globale.
Anche per questo, la sicurezza alimentare è stata definita più volte dal governo cinese e dallo stesso presidente Xi Jinping come una questione di importanza strategica. La Cina è il maggior produttore e consumatore di cibo al mondo, e si preoccupa da sempre di mantenere al massimo della capacità le proprie riserve alimentari, così come di mantenere stabile la propria catena di approvvigionamento.
Negli ultimi anni Pechino ha iniziato a diversificare e in alcuni casi ridurre le proprie importazioni di cibo, virando su paesi con cui ha rapporti più stabili (come il Brasile) e tentando di potenziare la produzione interna, con investimenti nel settore agricolo e nei «cibi del futuro», una categoria che comprende gli OGM e la ricerca nello sviluppo di proteine alternative. Cioè carne vegetale o coltivata in laboratorio, di cui il governo sta incentivando la produzione anche perché, secondo le stime, un loro largo consumo su scala nazionale contribuirebbe al raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra.
Gli stimoli statali potrebbero aiutare a rendere sostenibile il settore cinese della carne coltivata, che come in altri parti del mondo sta soffrendo il salto dalla ricerca alla produzione industriale. I costi, le regolamentazioni stringenti per la commercializzazione internazionale e la diffidenza dell’opinione pubblica globale sulla sicurezza della carne prodotta in laboratorio stanno mettendo a repentaglio la sopravvivenza di varie aziende del settore, per cui si prevedono bassi profitti per almeno i prossimi dieci anni. Tanto che alcune compagnie – come la CellX, con sede a Shanghai – stanno cercando alternative, producendo carne surrogata da biomasse vegetali o inserendo le cellule animali all’interno dei cereali, come il riso, per rendere più facile la loro accettazione da parte dei consumatori.
In tal senso, l’approccio flessibile al cibo dei cinesi, storicamente abituati a mangiare proteine non animali, potrebbe favorire la commercializzazione nel paese di carne coltivata o di sostituti vegetali dei prodotti animali. Uno scenario che porterebbe grandi benefici ambientali anche al resto del mondo.
A cura di Francesco Mattogno