Come si prepara la Cina ai nuovi dazi di Trump

In Economia, Politica e Società, Relazioni Internazionali by Lorenzo Lamperti

Il prossimo presidente degli Stati uniti minaccia nuove tariffe, Pechino si prepara affinando l’arsenale delle potenziali ritorsioni. Ma intravede anche una possibilità negoziale

Mentre il mondo continua a essere scosso dai conflitti armati, all’orizzonte già si staglia la sagoma di una nuova guerra commerciale. A prometterla, o meglio minacciarla, è Donald Trump. Le ultime nomine per la sua amministrazione, annunciate ieri, rafforzano le credenziali protezionistiche del suo secondo mandato. Il conservatore Kevin Hassett, futuro direttore del National economic council, avrà il compito di definire l’agenda economica del presidente. Tra gli ingredienti principali ci saranno i dazi. La conferma arriva dalla scelta dell’avvocato Jamieson Greer come nuovo inviato per il commercio. Si tratta dell’ex capo dello staff di Robert Lighthizer, l’architetto dei dazi imposti da Trump nel primo mandato, ma anche della rinegoziazione dell’accordo di libero scambio nordamericano con Canada e Messico. Le tariffe decise dal mentore di Greer colpirono circa 370 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, che resta decisamente il primo obiettivo di Trump.

Martedì, il prossimo presidente americano ha dichiarato che imporrà “un’ulteriore tariffa del 10%, oltre a qualsiasi altra tariffa aggiuntiva” sulle importazioni dalla Cina fino a quando Pechino non metterà un freno al traffico dei precursori chimici utilizzati per produrre il fentanyl. In campagna elettorale è arrivato addirittura a minacciare dazi aggiuntivi fino al 60%. Se mantenesse la sua parola, secondo gli analisti, l’economia cinese potrebbe soffrire un impatto intorno al 2,5% del pil. A Pechino in pochi credono che si arrivi ad azioni di tale portata, anche perché a pagare le conseguenze sarebbero anche (o forse soprattutto) le famiglie e gli importatori americani. Come già accaduto in passato, molti ritengono che la forte retorica di Trump sia in realtà una strategia negoziale.

A ogni modo, la Cina si prepara al peggio. Per ora, ci si ferma agli avvertimenti di diplomatici e media statali. “Non ci sono vincitori in una guerra commerciale”, è la frase più ricorrente in questi giorni, accompagnata da impegni a favore della globalizzazione economica. Nel frattempo, si mette a punto l’arsenale delle potenziali ritorsioni. Tra le ipotesi più chiacchierate, ci sarebbero la vendita in massa di titoli del tesoro americano e la svalutazione strategica dello yuan. Operazione già effettuata tra il 2018 e il 2019, utile a ridurre l’impatto delle tariffe e sostenere la competitività dei prodotti cinesi e dunque le esportazioni.

Anche a fronte di sanzioni e restrizioni alle catene di approvvigionamento mirate a singole aziende cinesi, come accaduto su Huawei, è invece difficile aspettarsi una rappresaglia contro le imprese americane. Anzi, nella visione di Pechino, i grandi manager americani sono interlocutori privilegiati. Tra di loro spicca Tim Cook, che in questi giorni sta compiendo la sua terza visita del 2024 nella Repubblica popolare. L’amministratore delegato di Apple ha incontrato il premier Li Qiang e ha partecipato a un forum sulla resilienza delle catene di approvvigionamento. Per poi esaltare il rapporto coi partner cinesi: “Non potremmo fare quello che facciamo, senza di loro”. Il messaggio, contrario ai venti di disaccoppiamento tecnologico, è molto chiaro. Nonostante le turbolenze, oltre l’80% dei 200 principali fornitori di Apple ha d’altronde fabbriche operative in territorio cinese. Promuovere le relazioni con Cupertino & co. serve a sperare che i giganti made in Usa possano mitigare l’azione dei falchi che presto aleggeranno intorno alla Casa bianca.

E poi c’è ovviamente Elon Musk, che in Cina ha enormi interessi con Tesla. La sua presenza nell’amministrazione lascia immaginare la prospettiva di un “grande accordo” con Trump, che per Pechino ha un lato positivo: il pragmatismo anti ideologico da uomo d’affari. Comunque vada sul fronte bilaterale, la Cina è convinta di poter sfruttare il suo isolazionismo per presentarsi come grande garante del libero commercio. E trarre così dei vantaggi nei rapporti coi paesi del cosiddetto Sud globale. Forse, anche con la stessa Europa.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]