Il fenomeno delle ghost town in Cina resta uno degli elementi che più colpisce i visitatori in arrivo dall’estero. E racconta la complessa storia di come nascono ed evolvono le comunità. Anche perché alcune città sembrano avviate verso il ripopolamento. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Qui per le altre puntate.
Kangbashi è la tipica ghost town cinese: una “colata di cemento” dove ci si aspetta di vedere poche persone e mezzi per la strada, poche luci ad illuminare gli interni dei palazzi, poche attività commerciali aperte. Intorno al 2010 questa era la città fantasma per eccellenza, parte di una macabra classifica che include città abbandonate dopo catastrofi naturali o costruzioni di dighe. Nata come quartiere di nuova costruzione della metropoli di Ordos, in Mongolia Interna, Kangbashi avrebbe dovuto accogliere 300 mila nuovi cittadini entro il 2020. Nel 2010 se ne contavano soltanto 50 mila, probabilmente sovrastimati. Nel 2023, secondo le statistiche cinesi, gli abitanti erano circa 126 mila.
Nel frattempo la narrazione è stata ribaltata. Nel 2021 un articolo di Nikkei Asian Review raccontava come il quartiere stesse diventando un polo attrattivo per le famiglie più abbienti. A determinare questo passaggio sarebbero stati il trasferimento di alcune delle migliori scuole del distretto e la crescente competizione per l’inserimento dei neodiplomati nelle più rinomate università della Repubblica popolare. Poiché l’accesso a tali università è subordinato al passaggio del gaokao, la scelta della scuola superiore si rivela sempre un investimento critico. Soprattutto in un mercato immobiliare saturo e spesso economicamente inaccessibile nelle città di prima fascia, dove sono localizzati gli istituti più rinomati.
Crisi e crisi
La “bolla” di quartieri come Kangbashi non ha niente a che vedere con la pandemia e la crisi immobiliare più recente, ma risale ai tentativi del governo centrale di sostenere l’economia durante la crisi del 2009. A quel tempo il prezzo al metro quadro per un appartamento sfiorava gli 8 mila yuan, ma la carenza di domanda aveva deprezzato gli affitti fino a scendere – in alcuni casi – a 3 mila yuan al metro quadro. Il settore immobiliare ha trainato l’economia di enti locali e aziende per decenni, contribuendo a investimenti massicci nel settore – anche da parte di cittadini privati – senza ritorno economico.
Nel frattempo, le aree di nuova edificazione sono diventate l’opportunità, dove possibile, di ragionare a nuove alternative di sviluppo economico rispetto ai vecchi modelli dipendenti dall’industria pesante e dal carbone. Al di fuori del caso emblematico delle città della Mongolia Interna, non mancano tentativi di disintasare i grandi centri. Nel 2009 Pechino aveva annunciato che avrebbe costruito venti nuovi centri abitati ogni anno per i successivi vent’anni. Il processo era iniziato nel 1978, quando la Repubblica popolare ha iniziato a sperimentare un’espansione delle città senza precedenti. Il numero di città è aumentato da 190 a 687, mentre la popolazione urbana è salita dal 18% al 65%.
Nel frattempo, le attività economiche si sono concentrate nei distretti industriali e nelle zone economiche speciali. Così facendo il 64% delle città ha assunto un ruolo chiave nelle politiche di crescita economica, diventando il centro della maggior parte delle attività produttive. L’80% del PIL cinese si concentra nelle città. Ciononostante gli ultimi anni si sono rivelati cruciali per lo sviluppo delle aree rurali, dove inizia a crescere la quota di attività legate alla logistica e al turismo.
“Città non-nate”
“Città non-nate”: la definizione del fotografo Kai Michael Caemmerer, che dal 2015 ha documentato l’esistenza di diverse ghost town cinesi, è forse una delle più pertinenti per descrivere il sogno immobiliare cinese dove non è riuscito a decollare. I cantieri per la costruzione di queste città arrivano prima dell’effettivo insediamento dei suoi abitanti, anticipando la domanda nei luoghi dove si pensa di costruire nuove opportunità. I cantieri richiedono dai 17 ai 24 anni, ed è spesso difficile far combaciare la spinta abitativa con la nascita di nuove imprese.
Secondo le stime sono almeno 50 le città che in Cina vengono etichettate come ghost town. Oltre al nuovo quartiere di Ordos già menzionato, l’elenco è caratterizzato da una certa varietà. Al di fuori dei tentativi di rivitalizzare l’economia trainata da miniere e industria pesante del nord, ci sono città nate intorno alle metropoli della costa (dove si concentrano i poli economici cinesi) nel tentativo di soddisfare la domanda locale, ma non mancano progetti incompleti nelle aree interne nel centro-ovest.
Tianducheng è un altro esempio di città che non è arrivata “al momento giusto”, ma che alla luce dei crescenti prezzi dell’immobiliare è tornata ad attrarre nuovi residenti. Nota al mondo perché ospita una riproduzione della Torre Eiffel, si trova nella zona di Hangzhou e avrebbe dovuto ospitare almeno 10 mila nuovi residenti. La popolazione attuale ha superato, secondo le stime ufficiali, i 30 mila.
Tecno-naturalismo
Anche l’area del lago Meixi a Changsha ha rivisto una ripresa dopo la pandemia. Un investimento da 7 miliardi di edifici residenziali che sembrava destinato al fallimento è diventato un polo attrattivo dopo che sono state sistemate alcune strutture abitative e dopo che sono stati introdotti servizi fondamentali come ospedali e scuole. A ciò si aggiunge, rilevano gli autori di uno studio, l’integrazione delle zone urbane con parchi e aree verdi.
Ma il progetto più noto degli ultimi tempi rimane quello di Xiong’an, l’ambizioso progetto di città ultra-tecnologica alle porte di Pechino. Un investimento da 128 miliardi di dollari che si inserisce nel più ampio progetto di sviluppo dell’area “Jing-Jin-Ji” (Pechino, Tianjin, Hebei) dove ci si aspettano almeno 3 milioni di abitanti. Anche qui l’integrazione tra tecnologia e spazi verdi sembra essere diventata il nuovo imperativo di quello che il ricercatore Andrew Stokols ha definito “tecno-naturalismo”.
In un contesto di crescente interesse per la transizione verde, le parole sulle opportunità di avere città “100% a fonti rinnovabili” si sprecano. Non solo Xiong’an, ma altre città un tempo marginali potrebbero presto diventare il motore che alimenta la Cina, invertendo la tendenza tra aree economicamente dipendenti dalla costa e zone rurali capaci di ospitare nuovi impianti fotovoltaici ed eolici.
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.