Parliamo di Filippine con Raimondo Neironi dell’Università di Cagliari, tra turbolenze interne e tensioni nel mar Cinese meridionale. In Myanmar la Cina si è ormai schierata con il regime militare, il neo-presidente indonesiano Prabowo Subianto se ne va in giro per il mondo, la repressione dei media in Cambogia, i timori per il futuro del Bangladesh e le altre storie da Thailandia, Vietnam, Sri Lanka e Pakistan, insieme ai consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente a cura di Francesco Mattogno (clicca qui per tutte le puntate)
Gli argomenti della puntata, nel dettaglio:
- Filippine – Rodrigo Duterte ammette i suoi crimini legati alla guerra alla droga, lo scontro dinastico tra i Duterte e i Marcos, le tensioni con la Cina nel mar Cinese meridionale: intervista a Raimondo Neironi
- Myanmar – Il viaggio di Min Aung Hlaing in Cina e gli aggiornamenti dal fronte
- Indonesia – L’insediamento di Prabowo Subianto e i suoi viaggi all’estero
- Cambogia – La scarcerazione di Mech Dara e la repressione dei media
- Thailandia – Economia, tra tassi di interesse e ingresso nell’OCSE
- Vietnam – Il nuovo (ennesimo) presidente, la repressione della libertà di parola online, il futuro delle nuove tecnologie
- Sri Lanka – Il risultato delle elezioni parlamentari
- Bangladesh – Mandato d’arresto per l’ex premier Hasina, i timori per il futuro della democrazia bangladese
- Pakistan – Il governo limita l’indipendenza della magistratura
«Sbrigatevi, venite qui e iniziate le indagini domani, presto potrei morire. Se verrò giudicato colpevole, marcirò in prigione». Forse bastano queste poche frasi, rivolte indirettamente alla Corte Penale Internazionale (ICC), per inquadrare il personaggio di Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine (2016-2022) e capo di uno dei clan familiari più potenti del paese. Le ha pronunciate il 13 novembre nel corso di un’udienza alla commissione d’inchiesta della camera dei rappresentanti filippina, che lo ha convocato per testimoniare in merito alla sua cosiddetta “guerra alla droga”. Duterte è accusato di aver ingaggiato delle squadre di criminali e poliziotti per uccidere indiscriminatamente spacciatori e consumatori di stupefacenti, prima a Davao, la città di cui è stato sindaco per oltre vent’anni, e poi in tutto il paese, una volta diventato capo di stato.
Non era la sua prima testimonianza sul caso. Già a fine ottobre Duterte si era presentato al senato per rendere conto delle incriminazioni a suo carico, e a sorpresa aveva confessato molti dei crimini di cui è accusato. Si dice che la sua guerra alla droga abbia fatto più di 30 mila vittime, anche se le cifre ufficiali della polizia filippina, giudicate inattendibili da varie organizzazioni internazionali, riportano solamente 6.200 morti. In ogni caso, per sfuggire alle indagini dell’ICC nel 2018 Duterte ha ritirato le Filippine dallo statuto del tribunale, che non ha più giurisdizione sul paese e non può chiedere l’arresto dell’ex presidente.
Intanto le Filippine si apprestano a entrare in una nuova campagna elettorale, quella per le elezioni di metà mandato del maggio 2025, con cui si rinnoveranno tutti i 316 seggi della Camera dei rappresentanti e 12 dei 24 senatori, insieme a varie amministrazioni locali. Lo scontro tra il clan dei Duterte e quello dei Marcos (di cui abbiamo parlato qui) sarà uno dei temi centrali del voto e andrà probabilmente a plasmare il futuro del paese, soprattutto in vista delle presidenziali del 2028.
A una turbolenta fase interna – aggravata dai numerosi tifoni che da mesi si stanno abbattendo ininterrottamente sul paese, in continua emergenza – si aggiungono poi le crescenti tensioni tra Manila e Pechino sul mar Cinese meridionale. L’8 novembre il presidente Ferdinand Marcos Jr ha firmato due leggi (la Legge sulle Zone Marittime e la Legge sugli Arcipelaghi) volte a rafforzare le rivendicazioni filippine su vari isolotti e atolli contesi con la Cina, che ha risposto pubblicando una nuova mappa per indicare alcuni territori reclamati dalle Filippine (tra cui la secca di Scarborough) come parte della Repubblica Popolare Cinese.
Di tutto questo abbiamo parlato con Raimondo Neironi, assegnista di ricerca in Storia dell’Asia presso l’Università di Cagliari ed esperto di Filippine.
Perché Duterte ha confessato dei reati che lo rendono perseguibile per crimini contro l’umanità?
Duterte è un personaggio sui generis che, un po’ alla Trump, riserva sempre delle grandi sorprese. A fine ottobre ha praticamente confermato di aver ingaggiato una “squadra della morte” durante la sua esperienza quasi trentennale da sindaco di Davao City, la Davao Death Squad. Lui stesso ha detto che questa squadra era composta da 7 criminali e non da dei poliziotti. Durante la testimonianza Duterte è stato molto incalzato dai senatori, soprattutto da Risa Hontiveros, che si batte da tempo per il rispetto dei diritti umani nelle Filippine e che ha fatto all’ex presidente delle domande molto puntuali, alle quali lui non ha sempre risposto.
Quali sono le cose più gravi che ha detto Duterte?
Duterte ha ammesso che i membri di questa squadra della morte ricevevano delle ricompense, che andavano dai 280 euro ai 13 mila euro. Si tratta di cifre importanti, che Duterte destinava anche ad alcuni poliziotti collusi. Questi agenti venivano spinti a provocare gli spacciatori e i consumatori di stupefacenti, così da creare tutte le condizioni necessarie per far partire uno scontro a fuoco e ucciderli, senza passare da un processo.
Perché è iniziata questa “guerra alla droga” e che conseguenze ha avuto?
È iniziata per contrastare soprattutto la diffusione della Shaboo, forse la droga più consumata nelle Filippine: è una sostanza molto simile alla metanfetamina e ha causato parecchi morti nel paese. Un aspetto interessante della guerra alla droga riguarda il numero delle uccisioni extragiudiziali, di cui non esistono dati ufficiali. La polizia filippina parla di circa 6 mila morti, ma diverse associazioni a tutela dei diritti umani, sia filippine che internazionali, sostengono che i morti siano 30 mila, o addirittura di più. Duterte ha iniziato la sua guerra alla droga a Davao, ma poi l’ha proseguita durante il suo mandato da presidente delle Filippine, e per lui si tratta quasi una questione personale. Una volta, durante la sua esperienza a sindaco di Davao, ha persino confessato di aver ucciso una persona che faceva uso di sostanze stupefacenti. È paradossale se pensiamo che le Filippine, pur con molti difetti, sono una delle democrazie più importanti del Sud-Est asiatico.
Marcos però, nonostante lo scontro dinastico con i Duterte, non sembra avere intenzione di far rientrare le Filippine all’interno della Corte Penale Internazionale. Perché?
Perché in questo modo ha più margine di manovra per occuparsi di quello che tuttora è considerato un grande problema sociale, ovvero l’uso e lo spaccio di stupefacenti. E Marcos, seppur sottotraccia e probabilmente in modo più contenuto, sta continuando a portare avanti la guerra alla droga di Duterte [si parla di almeno 800 morti da quando è salito al potere, nel 2022]. Va sottolineato che Manila non è uscita dall’Interpol, che ha detto di voler inviare alle Filippine una “red notice”, cioè una nota per chiedere al governo di mettere sotto stato d’accusa Duterte, aprendo alla sua estradizione. In questo modo l’ex presidente potrebbe andare incontro a un processo internazionale. Duterte ha dichiarato che non si opporrà a un eventuale ricevimento di questa red notice e l’amministrazione Marcos ha detto che la terrà in considerazione, però è davvero difficile capire se e come questo potrà concretizzarsi.
A maggio 2025 si vota per le elezioni di metà mandato e per rinnovare varie amministrazioni locali, si apre un’altra fase dello scontro tra i Duterte e i Marcos? Alle presidenziali del 2028 chi candideranno?
A maggio Rodrigo Duterte si ricandiderà per l’ennesima volta sindaco di Davao, mentre suo figlio Sebastian, l’attuale sindaco, gli farà da candidato vice. Alla Camera dei rappresentanti locale c’è poi l’altro figlio di Duterte, Paolo, e altri membri della famiglia concorreranno per diversi ruoli a livello locale. E intanto sua figlia Sara Duterte resta vicepresidente delle Filippine, a certificare come in questi anni, comunque, il clan si sia rafforzato. Da queste elezioni sapremo però soprattutto se Marcos riuscirà a consolidare il suo potere, oppure se perderà per strada degli alleati. Io non credo, perché per ora il suo indice di gradimento è molto alto. Sua sorella Imee Marcos dovrebbe essere rieletta al senato senza problemi, mentre suo figlio Sandro è il vice rappresentante della maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. È presto però per parlare delle prospettive delle due famiglie in vista del 2028, anche se Sara Duterte è sicuramente una probabile candidata alla presidenza [Ferdinand Marcos Jr. non potrà ricandidarsi perché la costituzione prevede il limite di un mandato].
La politica filippina ruota tutta attorno alle dinastie politiche?
Potremmo dire che il sistema politico filippino si fonda sulla leadership di un determinato candidato, più che su partiti e movimenti, ed è attorno a questa leadership che si creano le coalizioni. I partiti tradizionali sono meno forti rispetto a quello che potremmo pensare, e si muovono attorno a un candidato che nella maggior parte dei casi appartiene a una dinastia familiare. Nel corso degli anni i clan politici familiari si sono serviti delle liste di partito, inserendovi sistematicamente dei loro alleati: basti pensare che al senato tutti, tranne 4 senatori, appartengono o sono legati a varie dinastie politiche, non solo quelle dei Duterte e dei Marcos. Ci sono per esempio anche gli Estrada, o i Pimentel, cioè famiglie storiche che fanno politica fin dai tempi della colonizzazione americana. Il senato poi ha ampi poteri in politica interna ed estera, e i senatori hanno a disposizione dei finanziamenti pubblici che spesso utilizzano a scopo elettorale all’interno della loro circoscrizione, in maniera non proprio legale.
Esiste un’alternativa a questo sistema dinastico?
È ancora molto presto per fare previsioni, ma una possibile candidata per le presidenziali 2028 potrebbe essere nuovamente Leni Robredo, ex vicepresidente durante l’amministrazione Duterte, di cui è stata una forte oppositrice [nelle Filippine presidente e vicepresidente sono eletti con due voti separati]. Robredo nel 2022 si era candidata alla presidenza e aveva ottenuto 15 milioni di voti, pur perdendo largamente contro Marcos. È però difficile pensare che per la campagna elettorale potrà disporre di un budget paragonabile a quello dei candidati che provengono da clan familiari, che godono di finanziamenti enormi.
Apollo Quiboloy, un pastore di fama nazionale e amico dei Duterte, è stato accusato di traffico di esseri umani e sfruttamento sessuale. Che ruolo ha la religione nella politica filippina?
Quiboloy, che ha detto di volersi candidare al senato, è il pastore di una chiesa che si chiama “Il Regno di Gesù Cristo” e crede di essere figlio di Dio. Non è l’unica figura di questo tipo. Un’altra setta religiosa cristiano-protestante è la “Chiesa di Cristo”, attiva sin dagli anni Settanta, che si spende regolarmente con dei veri e propri endorsement nei confronti dei candidati sia a livello nazionale che locale, spesso finanziandoli. È una costante per tutte le chiese protestanti filippine, che da sempre sono molto attive e influenti in politica.
Tra Marcos e Duterte c’è stata una forte discontinuità soprattutto in politica estera. Si parla molto di mar Cinese meridionale: qual è l’approccio delle Filippine oggi nell’area?
Rispetto a Duterte, che aveva un rapporto cordiale con la Repubblica Popolare Cinese, Marcos ha cambiato completamente registro, in termini non soltanto di decisioni politiche ma anche di linguaggio. Non lo dice apertamente, ma l’attuale amministrazione ritiene la Cina una minaccia alla sovranità nazionale filippina. Marcos vuole mantenere il controllo su tutti quegli atolli che si trovano a largo dell’isola di Palawan, che sono importanti perché è attorno ad essi che si è costruito buona parte del successo economico delle popolazioni dell’area, basato molto sulla pesca. Il 2024 è stato l’anno più difficile nelle relazioni tra Manila e Pechino, e Marcos non sembra avere intenzione di fare passi indietro, anche grazie al sostegno degli Stati Uniti.
Cosa potrebbe cambiare con il ritorno di Trump alla Casa Bianca?
L’amministrazione Biden ha detto di considerare gli atolli e gli isolotti controllati dalle Filippine nel mar Cinese meridionale all’interno del campo di interesse del trattato di mutua difesa, firmato da Manila e Washington nel 1951. Poi se questo significa che gli Stati Uniti risponderanno a un eventuale attacco cinese nell’area, non possiamo saperlo. Sappiamo però che con Trump, nonostante regali sempre grandi sorprese, i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina potrebbero peggiorare ulteriormente, e quindi Marcos ha accolto positivamente la sua rielezione. Dal canto suo la Repubblica Popolare ha aperto alla possibilità di riprendere i lavori con l’ASEAN per l’istituzione di un codice di condotta definitivo per il mar Cinese meridionale, ma se ne parla da vent’anni ed è difficile capire se e quando verrà davvero introdotto.
MYANMAR – LA CINA PUÒ CAMBIARE L’ESITO DELLA GUERRA (A FAVORE DELLA GIUNTA)?
Il 10 novembre è terminata la visita di cinque giorni in Cina del leader della giunta militare e presidente del Myanmar, Min Aung Hlaing. Si è trattato del suo primo viaggio nel paese dal colpo di stato del 2021, condizione che certifica come Pechino, dopo anni di ambiguità strategica, abbia ormai scelto di appoggiare apertamente il regime militare. Negli ultimi mesi diversi delegati cinesi hanno più volte incontrato i vertici dell’esercito birmano – supportando il piano per le elezioni-farsa della giunta previste nel 2025 – e invitato le milizie ribelli ad abbandonare le armi, intimandogli di fermare le offensive che stanno mettendo seriamente a repentaglio la sopravvivenza del regime. Se alcuni gruppi ribelli hanno effettivamente congelato le operazioni (come il Myanmar National Democratic Alliance Army, MNDAA), molti altri hanno deciso di non farsi dare ordini da Pechino. La Cina ha quindi bloccato il commercio transfrontaliero con diverse aree liberate dalla resistenza, soprattutto negli stati Shan e Kachin, provocando carenze di cibo e medicinali in zone già duramente colpite dal conflitto. E probabilmente bloccando anche l’arrivo di armi ai ribelli.
Questo non significa che alla Cina piaccia un regime militare così fragile, e soprattutto un leader debole come Min Aung Hlaing. Al capo della giunta, che durante il suo viaggio nella Repubblica Popolare ha visitato anche fabbriche di droni e di auto elettriche cinesi (per scopi militari e… interessi di famiglia), non è stato permesso di incontrare il presidente Xi Jinping, ma solo il premier Li Qiang. Un segnale di come il riconoscimento diplomatico non sia totale. Li ha comunque promesso al regime birmano supporto economico, tecnologico e di sicurezza, sposando inoltre la narrazione del regime sullo stato della guerra civile. «Il conflitto si può risolvere senza atti di terrorismo», ha detto il primo ministro cinese con un riferimento non troppo velato ai gruppi ribelli, che il regime definisce “terroristi”.
Ci si chiede quindi se questo spostamento della Cina possa effettivamente salvare un regime sull’orlo del collasso, su cui, probabilmente, Pechino sta scommettendo al solo scopo di evitare che un’eventuale vittoria dei ribelli possa minacciare la stabilità del confine sino-birmano. La Repubblica Popolare non fa sconti su questo punto: a fine ottobre l’esercito cinese ha sparato dei colpi avvertimento contro un aereo militare birmano, intento a bombardare una città ribelle nel nord Shan, perché si era avvicinato troppo allo spazio aereo cinese. Nel frattempo la resistenza continua ad avanzare, soprattutto negli stati Rakhine, Chin e Kachin. Tra ottobre e novembre il Kachin Independent Army (KIA) ha conquistato Chipwi e Tsawlaw, due hub minerari fondamentali per l’estrazione di terre rare, di cui il Myanmar nel 2023 è stato il terzo produttore mondiale dietro a Cina e Stati Uniti.
In breve. Min Aung Hlaing è scampato a un altro attentato. Poco dopo il suo decollo verso la Cina dall’aeroporto militare di Naypyidaw sono esplosi alcuni ordigni nei pressi della pista: se fosse successo qualche minuto prima «sarebbero morti tutti i presenti», secondo una fonte di DVB. Il censimento della popolazione voluto dalla giunta, portato avanti solo nella metà del paese non liberata dai ribelli, è terminato teoricamente il 15 ottobre. Teoricamente perché non ci sono stati annunci, né aggiornamenti: è il segnale che le cose non sono andate benissimo per il regime. La giunta intanto continua a bombardare e uccidere i civili, senza sosta. Due milioni di persone rischiano di morire di fame nel Rakhine, dice l’ONU, mentre dall’inizio del conflitto l’esercito ha dato alle fiamme più di 100 mila abitazioni. Non solo Cina: a fine ottobre la marina birmana ha tenuto esercitazioni navali con quella russa, mentre a Kunming Min Aung Hlaing ha incontrato la premier thailandese Paetongtarn Shinawatra e il primo ministro cambogiano Hun Manet, amici di famiglia.
INDONESIA – PRABOWO OVUNQUE
Il 20 ottobre Prabowo Subianto si è insediato ufficialmente come nuovo presidente dell’Indonesia (abbiamo parlato approfonditamente dei suoi piani per il futuro del paese nella newsletter di China Files: clicca qui per sapere come riceverla). Il suo governo, che conta 48 ministri e 58 viceministri, è il più grande da sessant’anni a questa parte, chiara conseguenza dei mesi di trattative dietro le quinte finalizzati a portare quanti più partiti possibile all’interno della coalizione. Durante il suo discorso di insediamento Prabowo ha esaltato lo «stile di democrazia indonesiano basato sul consenso e non sul confronto», che è un bel modo di presentare l’annientamento dell’opposizione parlamentare: l’ex generale governerà di fatto insieme a tutti i partiti alla camera.
Politica estera. Si pensa che Prabowo sarà più attivo del suo predecessore Jokowi in politica estera, e in queste prime settimane da presidente ha già dato modo di dimostrarlo. Tra il 4 e l’8 novembre la marina indonesiana e quella russa hanno tenuto delle esercitazioni congiunte a nord-est di Giava, mentre dall’8 al 24 del mese l’ex generale è impegnato in una serie di viaggi diplomatici che l’hanno visto passare per la Cina (dove ha incontrato Xi Jinping e firmato accordi per 10 miliardi di dollari, rafforzando i legami di sicurezza con Pechino) e per gli Stati Uniti, prima di andare in Perù per il forum dell’APEC. A seguire i viaggi in Brasile (per il G20) e nel Regno Unito, per poi tornare in patria, forse passando dal Medio Oriente. La politica di “non allineamento” indonesiana al suo massimo splendore.
In questi giorni è successo però qualcosa di insolito. Prima di incontrare il presidente Joe Biden negli Stati Uniti, Prabowo si è congratulato al telefono con il presidente eletto Donald Trump. La chiamata, pubblicata sui canali social del leader indonesiano, non sembra fargli troppo onore: dal video si sente come Trump non abbia davvero idea di chi sia Prabowo, che si muoveva per la stanza un po’ sovreccitato. Probabilmente il desiderio di ottenere un “endorsment” dal futuro presidente degli Stati Uniti (paese in cui non è potuto entrare per anni a causa dei crimini di cui è stato accusato durante il suo periodo da generale) è stato più forte della sensazione di non aver fatto una gran figura.
LE ALTRE NOTIZIE
SUD-EST ASIATICO
• Cambogia. Mech Dara, giornalista di fama internazionale arrestato per alcuni post critici nei confronti del governo, è stato rilasciato su cauzione a fine ottobre. Un suo video di scuse è stato poi postato sui social, dove ha anche dichiarato sostegno al primo ministro Hun Manet. Dara, che è apparso piuttosto provato, ha in seguito annunciato la sua decisione di lasciare il giornalismo. Quest’anno i processi contro i giornalisti in Cambogia sono aumentati del 130% rispetto al 2023 (un report del Cambodia Daily), mentre il governo punta a regolamentare più duramente il settore dei media e a rafforzare i controlli riguardo la libertà di espressione sui social.
• Thailandia. A ottobre, per la prima volta dal 2020, la banca centrale thailandese ha ridotto i tassi di interesse, portandoli dal 2,5% al 2,25% allo scopo di stimolare la crescita economica. Da oltre un anno il Pheu Thai (il partito che guida il paese dal 2023, prima con Srettha Thavisin e ora con Paetongtarn Shinawatra) chiedeva questo taglio alla banca. Si era parlato molto di come salvaguardare l’istituzione bancaria dalle influenze della politica, argomento tornato in auge negli ultimi giorni. La nomina dell’ex consigliere del governo Kittiratt Na-Ranong a presidente della banca centrale, ufficializzata l’11 novembre, non è piaciuta ai mercati e ha sollevato nuovi timori su quello che sarà il livello di autonomia dell’istituzione. Nel frattempo, la Thailandia ha iniziato il suo processo (di un anno) per l’ingresso nell’OCSE, e la prima ministra Paetongtarn ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping a margine del forum APEC in Perù.
• Vietnam. Il 21 ottobre il parlamento vietnamita, ratificando la decisione del Partito Comunista del Vietnam (CPV), ha nominato il generale Luong Cuong come nuovo presidente del paese. Cuong ha preso il posto di To Lam, che manterrà solamente il ruolo di segretario del CPV, restando comunque l’uomo più potente del paese. Il Vietnam vede così insediarsi il suo quarto presidente in quasi due anni (del caos politico in Vietnam avevamo parlato qui e qui). La nomina a capo di stato di un generale riflette l’ascesa della fazione del CPV connessa all’apparato di sicurezza del paese e guidata da Lam. Ora ci si aspetta che il Vietnam entri in una fase di maggiore stabilità, in attesa del Congresso del CPV nel 2026. Intanto Cuong ha già fatto i suoi primi viaggi diplomatici da presidente in Cile e Perù. Diritti civili. Un blogger è stato condannato a 12 anni per aver criticato il governo sui social (e come lui ce ne sono tanti). Il CPV ha inoltre intenzione di rafforzare il controllo sulle attività online di blogger e influencer. Tecnologia. Il Vietnam vuole facilitare gli investimenti nei semiconduttori e nelle nuove tecnologie, ma dopo la vittoria di Trump negli Stati Uniti c’è un po’ di incertezza sul futuro del settore.
ASIA MERIDIONALE
• Sri Lanka. Il 14 novembre, a quasi due mesi dalla vittoria del leader della sinistra Anura Kumara Dissanayake alle presidenziali, si è votato per le elezioni parlamentari in Sri Lanka. Come previsto, la coalizione socialista guidata da Dissanayake, il Potere Popolare Nazionale (NPP), ha stravinto ottenendo 159 dei 225 seggi alla camera. Il nuovo governo avrà quindi tutto il margine di manovra necessario per implementare le proprie politiche economiche, pur dovendo rispettare i parametri previsti dall’accordo di salvataggio con il Fondo Monetario Internazionale. Qui per approfondire le ragioni dell’ascesa della sinistra radicale nel paese.
• Bangladesh. A ottobre un tribunale del Bangladesh ha emesso un mandato d’arresto per l’ex prima ministra Sheikh Hasina, accusata insieme ad altre 45 persone di crimini contro l’umanità per la violenta repressione delle proteste che hanno portato alla sua destituzione (il bilancio è di oltre 700 morti). Si ritiene che sia ancora nascosta in India, e intanto il processo contro di lei andrà avanti in absentia. Con una mossa preoccupante per il futuro della democrazia del paese, il governo ad interim ha bandito l’ala studentesca della Lega Awami (AL), il partito di Hasina. E per un po’ si è parlato anche della possibilità di vietare la partecipazione della stessa AL alle prossime elezioni. Il 10 novembre le autorità hanno poi vietato una manifestazione di AL, definendo i suoi sostenitori «fascisti». C’è chi teme che alle prossime elezioni il paese possa finire nelle mani degli islamisti radicali: più realisticamente, è possibile che i partiti islamici finiranno come partner di minoranza nella prossima coalizione di governo.
• Pakistan. Alla fine il governo pakistano è riuscito a far passare un emendamento costituzionale che limiterà l’indipendenza della magistratura, che ora difficilmente potrà permettere l’uscita dal carcere del leader del PTI, Imran Khan, senza il consenso di governo ed esercito. Ne avevamo parlato qui.
LINK DALL’ALTRA ASIA
Il governo malaysiano ha approvato una legge per permettere alle donne malaysiane che partoriscono all’estero di passare la cittadinanza ai loro figli. Per quanto riguarda la politica estera, l’8 novembre il primo ministro della Malaysia, Anwar Ibrahim, ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping a Pechino: qui un resoconto dettagliato. Durante il forum APEC in Perù poi Anwar ha detto che la Malaysia deve restare neutrale, senza sentirsi obbligata a scegliere di cooperare con un solo partner tra Cina, Stati Uniti e Unione Europea.
A Singapore è guerra aperta tra i figli del “padre” della nazione, Lee Kuan Yew. Intanto il premier Lawrence Wong potrebbe essere costretto a cambiare qualcosa nelle politiche del PAP, il partito che governa il paese fin dalla sua indipendenza del 1965, per assicurarsi maggior supporto alle elezioni del prossimo anno. Il Nikkei parla di “riforme”, ma forse è una parola grossa.
Quattro paesi del Sud-Est asiatico (Malaysia, Thailandia, Indonesia e Vietnam) sono diventati partner dei BRICS. Cosa pensano i paesi della regione della vittoria di Trump? Due brevi riassunti, qui e qui. Il 6 e 7 novembre si è tenuto a Kunming, in Cina, il summit dei paesi della regione del Mekong.
La Papua Nuova Guinea ha deciso di boicottare la COP29 in corso a Baku, in Azerbaigian, definendo le negoziazioni una «totale perdita di tempo» a causa dell’ostruzionismo dei paesi produttori di combustibili fossili.
In Nuova Zelanda la comunità Maori ha protestato contro una proposta di legge, presentata dal parlamento, che restringerebbe i diritti speciali riservati ai Maori come compensazione per i danni arrecati dalla colonizzazione ai popoli indigeni. Il video dei deputati maori che performano l’haka in parlamento ha fatto il giro del mondo.
Surangel Whipps Jr è stato rieletto presidente di Palau, uno dei dodici stati del mondo che ha relazioni diplomatiche con Taiwan e non con la Repubblica Popolare Cinese. La sua conferma significa che nel prossimo futuro le cose in tal senso non dovrebbero cambiare.
A cura di Francesco Mattogno