Un corpus di nuovi lavori di Liao Wen in mostra a Capsule Venice per scardinare vecchi paradigmi legati al concetto di corpo
Nella magica cornice veneziana della Fondazione Marchesani, casa di Capsule Venice per tutta la stagione 2024, Liao Wen (廖雯, Chengdu, 1994) presenta la sua prima mostra personale in Italia dal titolo By devouring it, I learn about the world, a cura di Manuela Lietti.
Divorare il mondo per scoprirlo, questo il concetto che Liao Wen ha voluto esplorare a seguito della lettura di Tidal Atlas (潮汐图, 2022) della scrittrice Lin Zhao (林棹, Shenzhen, 1984), un romanzo che vede come protagonista una rana gigante costretta a vagare per sfuggire dalle grinfie di chi la vuole catturare per farne un trofeo, per dominarla. Questa rana, però, ha anche un animo predatore che la porta a fagocitare tutto ciò che trova affascinante per poterlo conoscere al meglio, per farlo diventare una parte di sé. Una duplice natura che affonda le sue origini nel tema finora più caro all’artista di Chengdu: il concetto di corpo e i suoi possibili sviluppi futuri.
La mostra si apre nella stanza principale del piano nobile con l’opera che più si avvicina alla protagonista del romanzo di Lin Zhao, la rana dalla bocca larga diventa, però, un grande scheletro di balena, esposto in pieno stile museo di storia naturale. Le ossa sono numerate, la bocca è stata decorata da campanelli e perline. Questo immenso animale, così curioso da sembrare alieno, è stato dominato ed è diventato a tutti gli effetti un trofeo.
Liao Wen non si limita a mostrarci il risultato finale di questa storia di sfruttamento e annientamento, ad accompagnare l’opera è infatti presente un video di una performance in cui diversi attori (tra cui l’artista stesa) scompongono questo corpo, lo muovono, cercano di attivarlo quasi come se stessero partecipando a un rito sacrificale. I Swallow the Tide to Light Up, questo il titolo dell’installazione, rappresenta il gioco della violenza, molto contagioso e che, a turno, ci rende preda e predatori; proprio come la rana di Lin Zhao.
Tutta la mostra è permeata da questa sensazione di violenza ma il culmine si raggiunge con la scultura che chiude il percorso espositivo: Tears of the Succubus. L’opera è un fermo immagine di due mantidi durante un coito, ritratte poco prima dell’inevitabile morte del maschio per mano della femmina. Ritorna la duplicità, innazitutto dal titolo che crea un parallelismo tra la mantide e il succube, demone androgino che conquista indistintamente uomini e donne per averli sotto il suo controllo, ma soprattuto nella figura stessa dell’esemplare femmina dell’insetto consapevole della sua natura omicida, vissuta con senso di colpa verso l’esemplare maschio che non può che arrendersi di fronte alla massima espressione della libertà sessuale femminile.
Le lacrime del titolo vengono versate per questa condizione estrema della femmina e trovano una magra consolazione nei germogli di camelia giapponese quasi sospesi sul suo dorso atti a simboleggiare un tentativo vano di prolungare il rapporto con il compagno entrando in simbiosi con la natura.
Tears of the Succubus dettaglio, Courtesy Andrea Rossetti
Nonostante la violenza e la forte carica erotica, le sculture rimangono molto raffinate grazie anche alla scelta cromatica di sfumature di rosa che riescono a comunicare un certo calore umano e trasmettono allo spettatore la sensazione di avere una vera connessione con degli esseri che neanche i peggiori incubi di David Cronenberg sarebbero in grado di partorire. E un po’ come nell’ultimo film del regista canadese, Crimes of the Future, Liao Wen a Venezia mette in scena la crudità, le contraddizioni e i giochi di potere nella speranza di una vera ridiscussione del concetto di corpo.
La mostra è visitabile da Capsule Venice fino al 15 dicembre 2024.
Andrea Colosio, artista e insegnante di cinese