La politica di “Una sola Cina” seguita e divulgata rigidamente dal Partito comunista cinese (Pcc), ovvero la negazione dell’indipendenza di Taiwan – ufficialmente Repubblica di Cina – non può che riflettersi nel lessico utilizzato per parlare dei taiwanesi, degli affari di Taiwan e dei rapporti tra la Repubblica popolare e l’ex isola di Formosa. E in questo il mandarino è una lingua che si presta brillantemente a espedienti retorici, vantando una varietà sterminata di pseudo-sinonimi: caratteri che vogliono quasi dire la stessa cosa, ma non proprio.
Ad esempio, solo il termine “presidente” può essere reso in almeno tre modi: presidente di una Repubblica socialista (zhuxi), presidente di una Repubblica democratica (zongtong) e presidente di un’importante realtà educativa, lavorativa o imprenditoriale (lingdao), mutuato dalla retorica comunista dove indicava tecnicamente il “leader”; perciò, quando Hu Jintao incontra Ma Ying-jeou, attuale presidente di Taiwan, per la stampa cinese non si incontrano due presidenti – zhuxi e zongtong – , ma il Presidente-zhuxi Hu e il presidente-lingdao Ma, come se faccia a faccia si trovassero il carismatico presidente comunista e il leader, traditore, a capo di una provincia ribelle. Altrimenti, salomonicamente, Hu Jintao viene spogliato dei paramenti di presidente della Repubblica popolare, indossando i panni del Segretario del Pcc e levando dall’imbarazzo il Segretario del Partito nazionalista cinese Ma Ying-jeou.
Allo stesso modo, riferendosi ai ministri di Taiwan, è severamente vietato usare il termine “ministro”, ma si preferisce usare delle perifrasi fumose come “responsabile del dipartimento o esponente dell’ufficio”. Gli unici ministri, sono quelli del Pcc. La situazione si complica ulteriormente quando Cina e Taiwan si trovano nella stessa frase: non si parla mai di Cina e Taiwan, bensì di Cina continentale e provincia di Taiwan, rimarcando la differenza tra lo Stato cinese e l’isola “parte inalienabile della Repubblica popolare cinese”. tanto che i rapporti tra i due hanno un nome ben codificato, i rapporti dello Stretto.
Notevole anche l’escamotage di affiancare Taiwan alla situazione di Hong Kong e Macao, due territori a statuto speciale. Nella stampa cinese ricorre insistentemente la frase “la Cina, Hong Kong, Macao e Taiwan…”, infilando ambiguamente Taiwan nel gruppo dei territori con un accordo di autonomia in scadenza: per Hong Kong nel 2046, per Macao nel 2049.
Il potere delle parole, per la stampa cinese, è uno strumento fondamentale affiancato alla censura di tutto ciò che riguarda la politica interna dell’isola: i giornali cinesi, ad esempio, sistematicamente non danno notizia delle libere elezioni che vengono svolte a Taiwan, accennando solamente alle elezioni interne al partito di maggioranza, il Guomindang. Hu Jintao, ufficialmente, non si è complimentato per la vittoria di Ma Ying-jeou nelle elezioni per la presidenza della Repubblica di Cina, ma solo per quella per la segreteria del suo partito.
E’ chiaro però che l’espediente retorico reso necessario dal categorico rifiuto dell’indipendenza taiwanese da parte del Pcc ha dei riscontri bizzarri nella cronaca della realtà: nel caso del generale Lo Hsien-chie, se Taiwan è una provincia cinese, com’è possibile che venga arrestato da autorità di una provincia per aver condiviso informazioni riservate con la Cina continentale? Ovvero, il suo paese? Sono paradossi linguistici che investono la Cina: nella Repubblica popolare gli abitanti di Taiwan non sono i taiwanesi, né i cinesi, bensì i “compatrioti di Taiwan”, o ancora i “consanguinei di Taiwan”. E uniti nel sangue, come possono i 150 km dello Stretto di Formosa impedire il ricongiungimento familiare?
[Pubblicato su AGICHINA24 – 11 febbraio 2010 – © Riproduzione riservata ]