Caso Gao Brothers: Parla il fratello di Gao Zhen, l’artista incarcerato per le sue opere irriverenti nei confronti di Mao.
Il 26 agosto una trentina di poliziotti fa irruzione in una palazzina di Sanhe, sobborgo a circa un’ora di distanza da Pechino. Quando escono con loro c’è un uomo ammanettato sulla sessantina. Quell’uomo è Gao Zhen, il maggiore dei “Gao Brothers”, la coppia di artisti nota in Cina e all’estero per le irriverenti raffigurazioni di Mao Zedong. L’accusa è di “vilipendio dei martiri e degli eroi”, un reato disciplinato dal codice penale cinese.
“Gli avevano chiesto di consegnare il suo telefono cellulare e, quando ha rifiutato, lo hanno arrestato”, racconta a GariwoMag il fratello Gao Qiang, che da sette anni vive negli Stati Uniti. Zhen si trova ancora rinchiuso nel centro di detenzione di Sanhe. Dopo l’arresto l’artista ha potuto incontrare la moglie e il suo avvocato, ma l’8 settembre le autorità gli hanno negato la libertà su cauzione nonostante il peggioramento delle condizioni di salute.
“Mi ha chiamato sua moglie. Avrebbe dovuto prendere un volo di ritorno a New York il 3 settembre con il bambino, ma quando è arrivata alla dogana all’aeroporto di Pechino, le hanno detto che stava mettendo in pericolo la sicurezza nazionale e che non le era permesso di andarsene. Ora è ancora sotto sorveglianza“, racconta Qiang. Residente negli Usa dal 2022, Zhen era in Cina con la moglie e il figlio per fare visita a dei parenti.
Difficile stabilire esattamente cosa abbia determinato l’arresto. Perché proprio ora, poi? Tutte le opere sequestrate risalgono a oltre dieci anni fa: “la colpa di Mao”, un bronzo del Grande Timoniere inginocchiato con una mano sul petto; “L’esecuzione di Cristo”, una statua raffigurante Gesù di fronte a un plotone di esecuzione di Mao armati di fucile; e “Miss Mao”, una collezione di statue del defunto leader con grandi seni e un naso sporgente, simile a quello di Pinocchio. Una forte condanna del sistema politico cinese ispirata da trascorsi molto personali: come raccontato nel 2009 al New York Times, l’ossessione dei fratelli per Mao comincia fin dall’infanzia, ovvero da quando, nel pieno della Rivoluzione Culturale, il padre viene perseguitato a morte come “nemico di classe”. “Un suicidio”, secondo la versione ufficiale del regime comunista.
“I nostri lavori sono sempre rimasti nello studio di Yanjiao, a Sanhe”, ci spiega Qiang aggiungendo che “in questi anni non sono mai stati esposti al pubblico in Cina”. Alcuni erano stati distrutti da Zhen pochi giorni prima dell’incursione nell’atelier. Il fratello sapeva di essere in pericolo? Secondo Radio Free Asia, la polizia programmava la retata da almeno un anno. Il ritorno di uno dei “Brothers” ha reso possibile il piano. “Quando l’artista Ai Weiwei è stato arrestato dieci anni fa abbiamo cominciato a temere il peggio – racconta Qiang – ma, anche se abbiamo incontrato molti problemi a causa delle interviste rilasciate ai media occidentali e della creazione ed esposizione di opere sensibili, in generale ce la siamo sempre cavata. Negli ultimi anni però, a causa del deterioramento dell’ambiente politico, abbiamo avuto la sensazione che saremmo potuti finire in guai seri”.
Recentemente, Zhang Zhan, la giornalista arrestata nel 2020 per aver raccontato il Covid a Wuhan e liberata a maggio, è stata nuovamente detenuta. Secondo Amnesty International, nel mese di agosto la donna “si era recata nella provincia nordoccidentale del Gansu per esprimere solidarietà ad altri difensori dei diritti umani. Poi era tornata nella sua città natale, nello Shaanxi, e immediatamente dopo era diventata irrintracciabile, salvo ricomparire successivamente nelle mani della polizia di Shanghai, a oltre 1000 chilometri di distanza”.
Per aggirare il controllo delle autorità, negli ultimi anni i “Gao Brothers” avevano cominciato a organizzare mostre su invito: la location veniva diffusa solo tramite passaparola e messaggi di testo in codice poche ore prima degli eventi. La statua “La colpa di Mao” è stata progettata in modo che la testa potesse essere rimossa dal corpo, occultando così l’identità della scultura.
Poi il tintinnio delle manette e quella strana accusa di diffamazione: adottata in prima battuta nel 2018, la Legge per la protezione dei martiri e degli eroi è stata rafforzata tre anni più tardi con un emendamento al codice penale. La sanzione massima prevista è di tre anni di reclusione. Da allora i cittadini cinesi sono invitati a segnalare eventuali violazioni attraverso apposite linee telefoniche e piattaforme online. Ed è subito una “strage”. Nel 2021, l’ex giornalista Qiu Ziming ha ricevuto una condanna a otto mesi di carcere per aver diffamato i soldati morti in uno scontro con le truppe indiane nel 2020. Il quarantenne aveva messo in dubbio il bilancio ufficiale delle vittime e criticato il comandante dell’unità coinvolta nelle violenze. L’anno successivo, l’ex giornalista investigativo Luo Changping è stato condannato a sette mesi per aver pubblicato un post su Weibo in cui prendeva in giro i soldati cinesi raffigurati in un film sulla guerra di Corea. Entrambi gli uomini sono stati costretti a presentare scuse pubbliche, mentre nel maggio 2023 un noto comico è stato bandito dal palcoscenico per aver irriso l’esercito cinese.
Se ormai anche la satira è da considerarsi un crimine, cosa ne sarà della creatività nel secondo mercato dell’arte più grande del mondo? “Per essere onesti, non conosco esattamente lo stato delle arti in Cina oggi perché non torno da molti anni – ci spiega Qiang – ma penso che sia ancora possibile trovare una scintilla di creatività nonostante il controllo politico grazie alla resilienza umana, all’adattabilità dell’espressione e al profondo bisogno di comunicare, anche quando ci si trova di fronte a censura o repressione. Gli artisti di talento possono ancora trovare modi per mantenere la loro scintilla creativa, trasformando i vincoli in nuove forme di espressione artistica”.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.