Demolizioni forzate: tra risentimento e legge

In by Simone

[In collaborazione con AGICHINA24] Venerdì 21 gennaio, il Consiglio di Stato cinese, presieduto per l’occasione dal premier Wen Jiabao, ha approvato la bozza di legge sulle demolizioni forzate, uno dei fenomeni  più controversi e drammatici dello sviluppo cinese. L’obiettivo dichiarato del governo consiste nel riconoscere uguale valore alle esigenze di sviluppo della nazione e ai diritti dei cittadini sfrattati, almeno sulla carta. Secondo la nuova bozza, gli abitanti di un edificio destinato alle demolizioni dovranno ricevere un compenso equo, in linea non solo col valore di mercato dell’immobile, ma capace di comprendere anche le spese del trasloco e del disagio arrecato alle attività commerciali e lavorative durante il periodo della demolizione. Inoltre, si vieta espressamente di ricorrere alla violenza o alla coercizione fisica durante i lavori di sgombero, dichiarando illegali metodi di convincimento poco ortodossi come la sospensione della fornitura di acqua o di corrente elettrica per stanare gli inquilini meno accondiscendenti.
 
Le nuove norme arrivano dopo un susseguirsi di episodi tragici avvenuti a margine delle attività di demolizione: solo negli ultimi quattro mesi, le vicende della famiglia Zhong – in ottobre –  e le tragiche morti di Qian Yunhui e Li Li – tra dicembre e gennaio – hanno fatto emergere ancora una volta l’urgenza di regolamentare con maggiore severità le pratiche di demolizione forzata. Qian Yunhui, 53 anni, è morto il 25 dicembre del 2010 schiacciato da un camion nella provincia dello Zhejiang: la stampa straniera lo ha etichettato come un dissidente, un attivista politico, ma forse la definizione che più gli si adattava è quella di un capo villaggio alla difesa dei diritti dei suoi concittadini. Li Li, 38 anni, viene invece schiacciata da una scavatrice il 3 gennaio 2011, nello Henan.

Queste due storie hanno molto in comune: raccontano l’impotenza delle classi più deboli davanti all’avanzata di un progresso coatto, ma soprattutto evidenziano il ruolo attivo della comunità della rete cinese. Sono stati i netizen, infatti, ad alimentare il passaparola postando su blog e microblog le foto, molto forti, dei corpi maciullati sotto i mezzi per la demolizione. Combattendo la censura millimetro per millimetro, hanno dettato l’agenda dei media nazionali che davanti alla collera montante, seppur virtuale, non hanno potuto non trattare le due vicende. Ma per capire meglio la portata del dibattito, occorre tornare al settembre del 2010, raccontando la storia della famiglia Zhong.

Siamo nel Jiangxi, contea di Yihuang. In cima al tetto del loro condominio, tre membri della famiglia Zhong – figlia, madre e zio – protestano contro la demolizione della loro casa, dopo settimane di intimidazioni, taglio della luce e dell’elettricità, minacce anche fisiche da parte dei chengguan, gli sgherri assoldati dalle autorità locali per occuparsi degli sfratti più difficoltosi. Sotto di loro, un centinaio tra operai, poliziotti e chengguan circondano la casa. I tre si cospargono di benzina e si danno fuoco, un gesto estremo al quale il più anziano, 79 anni, non sopravviverà. Come per Qian Yunhui e Li Li, anche allora la rete cinese giocò un ruolo fondamentale di megafono indignato, portando il caso degli Zhong sulle pagine di giornali e riviste di tutta la nazione. In quell’occasione però, sul Century Weekly, prestigioso settimanale economico cinese, due lettere aprirono il dibattito sulle pratiche brutali delle demolizioni.
 
La prima, scritta alla redazione del settimanale da Hui Chang, funzionario della contea di Yihuang, difendeva strenuamente le demolizioni forzate, giustificando anche le perdite umane come sacrifici per il progresso. In un passaggio, si arriva anche a sentenziare che “non ci sarà nessuna nuova Cina senza le demolizioni forzate”. La seconda la invia invece Si Weijiang, avvocato, contrapponendo alle ragioni del progresso la necessità di tutelare i diritti degli sfrattati, chiedendosi inoltre in che misura questa corsa alla modernità vada effettivamente a favorire la popolazione. Già, perché intorno alle demolizioni forzate si è creato nel tempo un circolo vizioso di interessi incrociati, corruzione, arrivismo politico e criminalità. Le autorità locali spesso si comportano come piccoli boss mafiosi, approfittando della forte autonomia che il governo centrale cinese ha accordato sin dal 2001 alle istituzioni locali nel decidere ed eseguire i lavori di demolizione: una contea produttiva ed efficiente può essere un ottimo biglietto da visita da presentare alle sezioni del Partito comunista cinese, nella speranza di un salto di qualità, di una promozione, di un incarico a livello nazionale.

In mancanza di successi politici, il business delle demolizioni arricchisce le tasche delle autorità a suon di mazzette, appalti truccati per favorire imprese di amici, secondo il classico copione dell’illegalità che, evidentemente, non va in scena solo in alcune zone del Mezzogiorno italiano. Quando queste storie guadagnano attenzioni a livello nazionale, Pechino inevitabilmente ne esce indebolita, tradita dalla troppa autonomia accordata a rappresentanti delle istituzioni locali dalla condotta non esattamente immacolata. E quindi occorre correre ai ripari, varando norme ferree per mostrare all’opinione pubblica da quale parte il governo centrale ha deciso di schierarsi.  La galassia di interessi privati e malessere sociale che ruota intorno alle demolizioni forzate non è solo una questione di progresso, diritti e legalità, ma anche un problema di immagine e di consensi. Un problema con il quale il sistema monopartitico ed autoritario cinese è obbligato a confrontarsi, per non alimentare manifestazioni di dissenso.

[Pubblicato su AGICHINA24 il 25 gennaio 2011 © Riproduzione riservata ]