Cercando on line, nei meandri della rete protetta cinese, si trovano solamente le immagini del servizio di CCTV13, con tanto di inviata in diretta a Time Square. Del famigerato video riconciliante che sarà trasmesso in questi giorni negli Stati Uniti, in concomitanza con la visita di Hu Jintao, abbiamo per ora solamente pochi fotogrammi e un paio di interviste di passanti, ma tanto è bastato per dare i primi giudizi a caldo di questa operazione di marketing: tutti unanimemente negativi.
Su Chinageeks, ad esempio, Christopher Custer sostiene che tutta l’operazione sia “un enorme spreco di tempo e di soldi, e la cosa non mi sorprende”, mentre sul blog del Wall Street Journal dedicato alla Cina, Loretta Chao raccoglie le opinioni di alcuni esperti, che descrivono la pubblicità come “più terrificante che amichevole”.
Questo spot “Friendly China”, che sempre secondo il Wall Street Journal verrà trasmesso 300 volte al giorno sui megaschermi di Time Square fino al 14 febbraio – per un totale di 8400 passaggi in poco meno di un mese – mostra inevitabilmente il fianco scoperto delle buone intenzioni cinesi, che si scontrano drammaticamente contro la conoscenza limitatissima dei metodi comunicativi occidentali. E’ un problema di esportazione di costumi e modelli, una missione che la Cina vuole intraprendere ma che pare ancora troppo pretenziosa, senza un difficoltoso aggiustamento della retorica propagandistica interna, fatta di populismo, armonia ed egualitarismo fittizio, verso delle virate un po’ più spregiudicate, spontanee e – perché no? – anche di esaltazione dell’individuo.
La mossa mediatica architettata dal China State Council Information Office era stata pubblicizzata nei giorni scorsi dagli organi ufficiali cinesi, annunciando un video che avrebbe contribuito a promuovere l’immagine della Cina ed il suo soft power, secondo le direttive varate per questo nuovo piano quinquennale, ma il tutto sembra risolversi in una serie di immagini statiche ed inespressive su sfondo rosso, col preponderante ideogramma Zhongguo, ovvero Cina, che la maggioranza del pubblico americano non è ovviamente in grado di leggere.
Anche la scelta dei protagonisti dello spot è discutibile. Su Baidu Beat, Kaiser Kuo ha provato ad elencarli: ne esce una lista interminabile di sconosciuti, Yao Ming e pochi altri esclusi, tanto che nemmeno la redazione del motore di ricerca cinese è riuscita, in alcuni casi, a collegare una faccia ad un nome noto in patria. Ci sono modelle, artisti, eroi nazionali, scienziati, astronauti, imprenditori, sportivi, attori, musicisti e chi più ne ha più ne metta, in un guazzabuglio di personalità unidimensionali: lo sportivo non salta, il pianista non suona, la modella non sfila, lo scienziato non siede su una scrivania o traffica in un laboratorio, il miliardario non è in cima ad un grattacielo o dentro una macchina sportiva.
Sono tutti appiattiti, retrocessi da numeri uno a semplici comparse di un paese che, innegabile, fuori dai suoi confini è spesso vittima di numerosi pregiudizi, complici le gestioni permalose e stizzite di tutti i punti controversi della Nuovissima Cina: libertà di informazione, internet, Tibet e Xinjiang, dissidenti, inquinamento globale, svalutazione della valuta, strette relazioni coi regimi di mezzo mondo, insofferenza alle critiche, tutte tematiche che Pechino ha deciso deliberatamente di non affrontare davanti all’opinione pubblica mondiale, barricandosi dietro al principio di non ingerenza o accampando la scusa dell’incomprensione reciproca.
Secondo le fonti governative cinesi, lo spot è stato pensato per essere trasmesso non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa, America Latina e Medioriente, prospettiva che introduce altre contraddizioni in termini di immagine. Come può uno spot così piatto ed asettico riuscire ad intercettare l’interesse o anche solo la simpatia di un pubblico così eterogeneo?
Ed è stata una scelta saggia inaugurare questa campagna proprio negli Stati Uniti, dove i consensi politici e imprenditoriali vengono costruiti anche su foto di Obama che gioca a basket in canotta e pantaloncini, Michelle e figlie sorridenti in compagnia di Bo – il cane presidenziale – o i golfini casual di Steve Jobs?
Se questa è la risposta cinese al potere delle immagini americano, ad oggi, pare ancora un po’ pochino.
[Pubblicato su AGICHINA24 il 19 gennaio 2011 © Riproduzione riservata]