La prima domanda che volevamo porle è questa: in che senso deve essere letta la nomina di Xi Jinping a vice presidente della CMC?
Mi sembra che la nomina rientri nella prassi politica cinese, secondo cui la carica di segretario del PCC e quella di leader della CMC – l’organismo politico di gestione delle forze armate – vanno di pari passo. Credo che la prassi verrà rispettata anche nel prossimo congresso (il XVIII Congresso del PCC nel 2012, ndr) ed è lecito attendersi che la vice presidenza indichi a piè pari il probabile passaggio alla presidenza della commissione stessa.
Quindi non dobbiamo attenderci sorprese? Meglio essere prudenti?
Dobbiamo senz’altro essere prudenti; in Cina – come abbiamo spesso avuto modo di costatare – le sorprese non mancano mai. L’interpretazione più realistica delle dinamiche politiche che sottendono le nomine è che esse seguano una prassi ormai largamente sperimentata e consolidata.
Nel suo libro tratteggia alcune caratteristiche di nuovi leader. Sulla base degli appuntamenti politici ed economici prossimi futuri, a suo avviso su quali linee i leader cinesi baseranno la loro politica.
Opzioni, strategie, ipotesi di certo non mancano. Non deve stupire che all’interno della classe politica cinese possano convivere idee o opzioni diverse – come già avvenuto in passato – su quale strategia politica o di governance si debba portare avanti. Dopo la successione di Hu Jintao nel 2012 alcuni elementi che costituiscono scelte politiche del passato dovranno essere mantenuti. La politica agricola – centrale nel periodo di Jiang Zemin e ripresa con maggior rigore dall’amministrazione successiva – è senz’altro uno di questi: l’attenzione alle aree rurali e alla popolazione contadina è da sempre molto forte; centinaia di milioni di cinesi– all’incirca il 55-60% della popolazione cinese – vive ancora nelle campagne. Operare un intervento sulle sperequazioni e assorbire le disuguaglianze, costituiscono un altro obiettivo prioritario. Ci attendiamo un graduale allontanamento dall’enfasi economicistica e “produttivistica” degli anni passati – motivata da precise esigenze di sviluppo – che se da un lato ha posto le basi del miracolo economico, dall’altro ha tuttavia generato squilibri e disuguaglianze, sia territoriali sia sociali, troppo elevati. Un costo eccessivo per un paese ancora in via di sviluppo che richiede un rapido ed efficace intervento dall’alto. Mi sembra che la dirigenza cinese stia correggendo il tiro, in linea con quella politica armoniosa che la leadership auspica.
Il 12° piano quinquennale riflette anche queste intenzioni?
Indubbiamente. Dobbiamo però compiere uno sforzo di comprensione in più e considerare che un paese complesso come la Cina non è in grado di innescare processi di transizione profondi che non siano lenti e graduali. L’Occidente a volte è impaziente e pensa che in Cina – proprio grazie a un sistema monopartitico e autoritario – tutto possa essere risolto rapidamente; e se i problemi rimangono aperti vuol dire soltanto una cosa: che non si è capaci di risolverli oppure che sono irrisolvibili. La realtà è molto più complessa e i leader cinesi devono governare un Paese caratterizzato da una profonda diversificazione sociale, territoriale, geografica, di stili di vita.
Quindi le è ottimista sulla capacità del PCC di riadattare il modello di sviluppo? Oggi sono molti gli analisti cinesi – tra cui Zhang Jian, intervistato recentemente da AgiChina24 come portavoce delle posizioni degli intellettuali cinesi più liberali – schierati criticamente rispetto alla natura del cosiddetto “miracolo economico cinese”, che Zhang non esita a definire “per niente miracoloso”, bensì trainato dalle disuguaglianze sociali. Sottoscriverebbe questa analisi?
Bisogna saper ascoltare le opinioni dei cinesi, soprattutto quando si tratta – come in questo caso – di economisti, sociologi, politologi. E’ giusto che siano loro i primi a porre questo tipo di domande a se stessi, al paese, al governo: un atteggiamento positivo e il segnale preciso che vi siano maggiori possibilità di intervento rispetto al passato. Naturalmente sussistono dei limiti alla libertà di critica rispetto alle linee politiche ufficiali, ma alcune posizioni sono degne di nota, come quella di Yu Keping sulla democrazia incrementale e di altri intellettuali sul sistema politico – uno dei nodi più delicati della Cina contemporanea – e sulla società cinese, che leggiamo sempre più di frequente sulle pubblicazioni dell’Accademia delle scienze sociali. Questi esempi indicano che è in corso un dibattito che non è meramente accademico ma tocca le stanze del potere, influendo in certa misura – anche se non sempre – sull’analisi politica. Un fatto miracoloso? Non so se lo si possa descrivere in questi termini, ma a me appare una novità considerevole, soprattutto se penso alla Cina che ho vissuto come studente nella seconda metà degli anni Settanta. Proprio rispetto alla Cina di quarant’anni fa – che sono storicamente pochi – mi sembra che in alcuni settori siano stati compiuti una serie di progressi, in altri meno, ma in generale abbiamo assistito a una collezione di successi che ha portato – come si è detto – all’ emergere di nuove contraddizioni – per dirlo alla maoista – , nuovi scenari, nuovi problemi. E la cosa in sé non deve sorprendere più di tanto: le criticità che oggi il Paese si trova ad affrontare erano prevedibili. In questo momento bisogna ammettere che governare un paese come la Cina è particolarmente difficile. Ma sono ottimista perché il Paese ha dimostrato negli ultimi decenni una grande capacità di crescita; lo sono moderatamente perché non possiamo sottovalutare la gravità dei problemi che Pechino dovrà gestire.
Entrando nel cuore dei problemi della Cina di oggi, che ne pensa dei recenti scioperi, il comportamento dei media e la generale attenzione rivolta nei confronti del mondo del lavoro?
Da quello che leggo sui giornali mi sembra di intuire che vi siano stati dei progressi. C’è sicuramente una presa di coscienza, se non sociale, remunerativa e salariale dei diritti individuali – e collettivi – dei lavoratori. A renderlo evidente non sono solo i recenti scioperi di fabbrica ma tutta una serie di manifestazioni di villaggio legate a persistenti condizioni disagiate di lavoro. Basti pensare allo stillicidio delle miniere: la sicurezza sul lavoro è ancora carente; lo sviluppo economico ha generato la diffusione di nuovi bisogni, ed è fisiologico che l’operaio cinese, vedendo crescere attorno a lui la ricchezza del paese, inizi a pretendere dei salari più adeguati. Quello che manca è una concertazione nazionale.
Lei come vede il futuro del sindacato cinese? Sarà possibile una svolta liberale in tema di libertà di sciopero?
Il sindacato conquisterà a fatica degli spazi, fin quando prevarranno le organizzazioni legate al partito – un legame che definirei strettamente gerarchico –. Il sindacato può fare – e sta facendo di – più; potrà portare avanti alcune rivendicazioni ma la configurazione dei rapporti sociali e politici non consente – almeno nel breve medio termine – che il sindacato possa assumere lo stesso ruolo che il suo omonimo esercita in occidente. Al sindacato cinese manca la forza contrattuale, e non vedo grandi premesse affinché possa conquistare fette di potere nazionale.
Il Time ha recentemente parlato di Brain Power cinese. Da un punto di vista economico la Cina è pronta a passare al Made in China, al Created in China?
Il Time ha posto un problema centrale. A volte siamo ancora fermi all’immagine vecchia e stantia di una Cina che produce ricchezze arretrate dal punto di vista tecnologico, scientifico, del valore del lavoro e delle merci. Questa è solo una parte della realtà, forse quella che molti di noi conoscono per esperienza diretta. E invece c’è anche un’altra Cina: il ruolo della formazione scientifico-tecnologica, il pensiero delle elites, sta crescendo in modo esponenziale in vari settori anche attraverso un collegamento con le dinamiche internazionali, laddove in passato c’era più compartimentazione e isolamento. Il brain power della Cina, in altre parole, non è più emarginato: è sempre più concorrenziale e inserito nelle dinamiche internazionali e caratterizza un paese molto ambizioso.
Passando a temi più politici, quanto pesa oggi la scuola del partito all’interno degli equilibri del PCC?
Sto svolgendo una ricerca sul marxismo cinese fortemente correlata alla scuola del partito; scopo: la comprensione della realtà politica attuale oltre l’aspetto propagandistico e della retorica. Il PCC continua a definirsi comunista perché ritiene di essere tale; esso ritiene di avere l’ambizione di costruire un tipo di società e usa la terminologia marxista-leninista nei testi e nei congressi. Anche se affidassimo alla retorica politica l’asserzione della centralità dei principi del marxismo-leninismo nello statuto del PCC, credo che sarebbe necessario tenere presente che i comunisti cinesi stanno cercando di rimettere a nuovo un’ideologia di cui alcuni aspetti rivisitati del marxismo possano essere parte costituente. La scuola centrale del partito – così com’è stato più volte ribadito da Hu Jintao – oggi ha il compito di formare i quadri dirigenti per immettere nella classe politica maggiori competenze amministrative; i funzionari del partito sono consapevoli che una parte della classe dirigente cinese – soprattutto a livello locale – è oggi ancora inadeguata alla complessità dei problemi che il governo è chiamato a risolvere. Il PCC avrà un ruolo centrale nel cercare di sanare una serie di vuoti organizzativi che si sono aperti nel sistema partitico; l’atrofia parziale delle cellule come unità di partito a livello locale hanno infatti perso il ruolo fondamentale che avevano un tempo e sono state via via sostituite con altre organizzazioni. Un’altra delicata funzione della scuola centrale del Partito è di inglobare i rappresentanti di nuovi gruppi sociali, creando nuove figure dirigenziali che provengano anche da gruppi storicamente avversati dal PCC o semplicemente tenute ai margini della società.
Quest’atrofia è una conseguenza del processo di istituzionalizzazione?
Mentre la capacità di governance a livello centrale si è notevolmente sviluppata negli ultimi venti anni, in varie aree del paese sono sorti problemi di “piccola governante”. Nella prassi amministrativa cinese, è il centro a fornire indicazioni e il corpo del partito a mobilitarsi. Qual è oggi il rapporto tra il corpo del partito, i suoi agenti e il corpo sociale? Una serie di elementi critici indica la presenza di profonde inefficienze, evidenziate in primo luogo dalla diffusione del malcontento. Se da un lato le proteste sono lecite e comprensibili, dall’altro lato esse vanno governate: se, infatti, sono in grado di provocare reazioni popolari contro le istituzioni locali, è evidente che la classe dirigente non è adeguata a gestire le nuove esigenze nate in seno alla società. In altre parole le forme istituzionali preposte all’organizzazione del partito si sono trasformate da gusci pieni a gusci vuoti.
In questo contesto la corruzione dei quadri è sintomo ma anche causa del deficit di governance…
Alla luce di alcune indagini condotte da enti accreditati come l’Accademia delle Scienze Sociali, emerge che la corruzione continua a essere un problema largamente sentito dalla popolazione cinese. Ed è giusto che sia così: del resto, leggendo tra le righe le dichiarazioni dei dirigenti cinesi, si capisce che la corruzione è una questione di vita o di morte per il PCC. Se l’unico soggetto politico è indebolito da problemi strutturali interni, questo non può che avere pericolose ripercussioni sulle capacità di governo del Paese. Se in Occidente una crisi politica, per quanto grave essa sia, può essere colmata dalla presenza consolidata di altre forze sociali, diversamente in Cina se l’incapacità di governare – o il deficit di etica politica – si diffonde presso la società civile, si possono scatenare conseguenze drastiche.
La Cina non ha problemi di voto ma ha problemi di legittimità….
In che modo il partito si sta muovendo per “pescare” nella classe media i suoi nuovi quadri? La “teoria delle tre rappresentatività” è ancora un concetto valido? Il meccanismo di cooptazione è sufficiente per preservare la supremazia del partito?
Ritengo che la strategia promossa dal PCC sotto la guida di Jiang Zemin sia stata socialmente e politicamente intelligente. In Cina stanno sorgendo nuove figure professionali, sociali, imprenditoriali, ed è ovvio che un partito al potere si debba porre il problema di cercare di inglobare questi nuovi soggetti, al fine di concedere loro uno spazio politico e frenare possibili tendenze centrifughe. I dati in mio possesso sono un po’ altalenanti: da un lato, in alcune fasce sociali questa politica di reclutamento – messa in moto molto prima che Jiang la teorizzasse – ha registrato dei successi; dall’altro lato non mi sembra che tutto stia andando nella direzione auspicata: non è così automatico che i nuovi attori sociali ai quali il partito si rivolge, vogliano entrare nel PCC o che all’interno del partito l’ opposizione ai meccanismi di cooptazione – che permangono – cessi di esistere. Il PCC applica una serie di normative disciplinari d’ingresso; i candidati devono superare un periodo di prova prima di diventare membri effettivi. Se così non fosse, il PCC non potrebbe contare su un numero relativamente esiguo di tesserati – decine di milioni di membri su una popolazione di un miliardo e trecento milioni-.
Nei giorni scorsi abbiamo intervistato il Professor Mazzei sulla crisi coreana, sull’influenza di Pechino sul regime nordcoreano. Dopo l’attacco di Pyongyang del 23 novembre scorso contro l’isola di Yeonpyeong , la Cina si è tirata addosso parecchie critiche:“possibile che Hu Jintao non sapesse nulla essendo la Cina l’unico alleato del Nord Corea”? Qualcuno ha sostenuto che proprie le dialettiche interne al Partito Comunista Cinese abbiano fatto perdere la faccia a Pechino. All’interno del partito, come sappiamo, ci sono varie correnti: giovani leader riformisti, quindi più favorevoli a una riforma del regime nordcoreano, e le vecchie guardie conservatrici che premono affinché il Nord Corea resti esattamente così com’è, anche in chiave strategica anti-americana. Una tesi affascinante, di cui ovviamente non possiamo verificarne la fondatezza. Qual è il suo commento a riguardo?
Dobbiamo abbandonare – come dice Mazzei – le dietrologie?
Non ho gli elementi per giudicare se i cinesi abbiano una parte di responsabilità nella recente crisi coreana. Non è difficile immaginare che possano esserci state delle consultazioni prima che Pyongyang sferrasse l’attacco il 23 novembre scorso. Ma non dobbiamo dimenticare che la Corea del Nord ha più volte dimostrato in passato di essere un paese inaffidabile: una partita difficile da gestire per Pechino e che ha creato un evidente imbarazzo politico. La Corea del Nord è dossier difficile che ereditiamo dal secondo dopoguerra. Come mai la comunità internazionale e le grandi potenze, prima l’una e poi le altre, non sono mai riuscite a trovare una soluzione adeguata e pacifica alle tensioni tra le due Coree? L’Asia Orientale è una regione cruciale, e qualsiasi azione scellerata può provocare grossi problemi, magari inaspettati.
Tornando alle questioni di politica interna, c’è stata una grande delusione da parte di moltissimi intellettuali cinesi rispetto al recente plenum, nel quale non è stato fatto alcun accenno alla riforma politica. Al di là delle schermaglie dialettiche, i recenti appelli di Wen Jiabao (Zakaria per CNN, ecc) che fine faranno dopo l’attribuzione del Nobel a Liu Xiaobo?
Non mi stupisce che gli intellettuali cinesi residenti in Cina scrutino la realtà con attenzione, individuando in ogni piccolo cambiamento un segnale di apertura. Ma personalmente, dal punto di vista di uno studioso esterno al Paese, non intravedo una svolta democratica, per lo meno non nel modo in cui la intendiamo noi.
Yu Keping ha introdotto nella politologia cinese il concetto di democrazia incrementale. Il termine incremental rende l’idea di un processo graduale. Le aperture politiche segnalate dagli intellettuali cinesi sono limitate se le osserviamo con lenti europee; è pur vero che in Cina ogni passo in avanti, se pur limitato, rappresenta di per sé un traguardo significativo. La democratizzazione all’interno del partito costituisce a mio avviso il primo, vero, cambiamento sostanziale nella vita politica del paese; la “intra-party democracy” – così come gli esperimenti elettorale a livello locale – introduce i primi accenni – graduali, modesti, ma non trascurabili – sul problema della rappresentanza politica.
Parlare di un possibile progresso democratico – con “caratteristiche cinesi” – del Modello Cina significa anche chiedersi se Pechino stia guardando al modello politico di Singapore, ad esempio?
Lee Kuan Yew è stato per certi aspetti un modello politico d’ispirazione per la Cina, ma Singapore, così come Taiwan, sono contesti troppo piccoli; essi rappresentano laboratori politici interessanti ma pur sempre distanti dal modello cinese.
Un’ultima domanda. Si parla di “guerre di valute”; si parla di “guerra di terre rare”. La Cina è effettivamente uno stato autoritario, su questo non c’è alcun dubbio. In questo momento, nonostante la fermezza mostrata al G20 su questioni come la riforma del tasso di cambio della valuta e la centralità internazionale acquisita dopo lo scoppio della crisi, deve fronteggiare numerose pressioni interne (successione all’attuale leadership; inflazione; proteste di varia scala e ordine, etc.) che costituiscono la priorità della sua agenda politica. E’ davvero la fine del low profile in politica estera? Lo sviluppo pacifico sbandierato nel libro bianco del 2005 – che sottolinea il legame tra crescita interna e pace internazionale – e sulla quale la Cina ha fondato la politica estera degli ultimi anni – verrà gradualmente abbondonato?
La Cina sta costruendo una rete di alleanze con molti paesi che fino a poco tempo fa liquidavamo come Terzo Mondo. Oggi Pechino esercita un ruolo di leadership nello scacchiere internazionale, muovendosi da protagonista con molti Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina. La politica estera cinese è da alcuni definita “pragmatica”; altri parlano di cinismo: un approccio in grado di superare alcuni limiti etici e stringere accordi anche con regimi politicamente discutibili. Una strategia vincente che di sicuro ha l’effetto di togliere un po’ d’acqua intorno agli Stati Uniti, anche se Pechino non può fare a meno di Washington. Altro discorso è il ruolo cardine che la Cina sta giocando in Asia: Pechino cerca di rassicurare i paesi asiatici presentandosi come una potenza “pacifica”, garantendo che il protagonismo sulla scena internazionale non può danneggiare le potenze limitrofe, ma al contrario avvantaggiarle. Ed è vero che la Cina ha bisogno di collocarsi in un contesto pacifico: Pechino deve anzitutto risolvere le contraddizioni interne, e non può farlo se è circondata da venti di guerra.