Più export, meno import di armi: la Cina è sempre più autonoma nello sviluppo del proprio arsenale.
Una «pietra miliare». Questo il termine utilizzato a gennaio dalla stampa cinese per descrivere la vendita al Pakistan dell’aereo da caccia stealth di quinta generazione l’FC-31.
Sviluppato dalla statale Aviation industry corporation of China (Avic), il jet è un aereo monoposto, bimotore, per caratteristiche paragonabile – «se non superiore», dicono i cinesi – ai famigerati F-35, prodotti del colosso della difesa americana Lockheed Martin. Non solo la tecnologia stealth consente ai velivoli di individuare prima gli avversari e lanciare attacchi a sorpresa. Secondo Wei Dongxu, esperto militare citato dal South China morning post, gli FC-31 possono trasportare un’ampia selezione di munizioni, fino a due missili aria-superficie o tre missili aria-aria, oltre a diverse bombe a guida laser.
L’acquisto allunga la lista della spesa di Islamabad e consolida la posizione della Cina tra gli esportatori di armi globali. A confermarlo è l’ultimo rapporto dello Stockholm international peace research institute (Sipri), stando al quale, nel periodo 2019-23 la Cina ha venduto armi a 40 stati: con una quota dell’export globale del 5,8%, il gigante asiatico si è posizionato di nuovo al quarto posto nella classifica mondiale, sebbene il volume delle vendite sia leggermente inferiore al quinquennio precedente.
Il primo acquirente è proprio il Pakistan, che da solo ha assorbito il 61% delle esportazioni cinesi, seguito da Bangladesh (11%) e Thailandia (6%). Il dato è particolarmente visibile nell’Africa subsahariana. Qui, nel periodo preso in esame, la Cina ha ottenuto una quota del 19% delle importazioni di armi, superando – anche se di poco – la Russia, ferma al 17%. Numeri che rendono la Repubblica popolare il nuovo fornitore numero uno, sebbene Mosca detenga ancora il primato nel continente, se al conto si aggiunge il Nord Africa (24%). Tendenza che, oltre ad essere trainata dalla ricerca di profitti, sembra in parte guidata dalla necessità di armare e stabilizzare i paesi dove la Cina ha investito più massicciamente. Non a caso tra gli ultimi accordi spiccano forniture di attrezzature militari allo Zimbabwe, ricco di miniere di litio.
Contestualmente, secondo lo studio del Sipri, la «crescente capacità di Pechino di progettare e produrre le proprie armi principali» sta affrancando il gigante asiatico dalle forniture esterne. Negli ultimi cinque anni, la Cina si è collocata al decimo posto tra gli importatori, con una diminuzione degli acquisti del 44% rispetto al quinquennio precedente. Nonostante la guerra in Ucraina, la Russia resta il fornitore numero uno, contando per il 77% degli acquisti cinesi, seguita dalla Francia con una fetta del 13% del totale. Alla terza posizione, si conferma l’Ucraina (8,2%), da cui Pechino dipende ancora per la fornitura di turbine a gas per cacciatorpediniere e motori per gli aerei da addestramento e da combattimento leggero L-15. Segno – dicono dal Sipri – che «non c’è stata una spaccatura politica tra Ucraina e Cina in grado di impattare le relazioni militari». Il motivo, secondo l’organizzazione con base a Stoccolma, è che la Russia non può sostituire completamente l’Ucraina, paese da cui anche Mosca ha storicamente attinto per ottenere attrezzature navali e aeree. Ma il vero ostacolo resta la produzione di aerei: nonostante i progressi nel settore dei motori, Pechino dovrà continuare a importare aeromobili ad elica dalla Russia o a costruirli su licenza con la Francia.
La Repubblica popolare costituisce un po’ un’eccezione in Asia, la regione in assoluto dove lo shopping di armi è aumentato più drasticamente. Secondo il Sipri, negli ultimi cinque anni, India, Pakistan, Giappone, Australia, Corea del Sud si sono classificati tra i primi dieci importatori su scala globale. Il primato delle importazioni globali di armi lo detiene Nuova Delhi, che fronteggiando perennemente il rischio di un conflitto con Islamabad e Pechino, ha aumentato la spesa raggiungendo il 9,8% del totale su scala mondiale, rispetto al 9,1% del lustro precedente. Almeno in parte, sempre il fattore Cina sembra giustificare la sostenuta crescita dell’arsenale di Giappone e Corea del Sud: i due paesi asiatici hanno incrementato la quota degli acquisti militari rispettivamente del +155% e +6,5%. Complice la minaccia nordcoreana.
Non serve troppa immaginazione per capire da chi si siano riforniti: gli Stati Uniti – che muovono i fili delle alleanze regionali – sono stati la principale fonte di armi per entrambi i paesi asiatici. Con una crescita del 17%, Washington ha raggiunto il 42% delle vendite mondiali: sono ben 107 gli stati ad aver ottenuto attrezzature americane tra il 2019 e il 2023. A gennaio il Tokyo si è impegnato ad acquistare 400 missili da crociera Tomahawk, con capacità di contrattacco in territorio nemico. Ai sensi dell’accordo, il Sol Levante sosterrà un esborso di circa 254 miliardi di yen (1,6 miliardi di dollari), per i missili e le attrezzature correlate, su un periodo di tre anni a partire dall’anno fiscale 2025.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Missioni Consolata]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.