I numeri della guerra in Myanmar, perché «non ci si può permettere di dimenticare», dicono le Nazioni Unite. Già si intravede la nuova Indonesia di Prabowo Subianto, il Sud-Est asiatico sembra preferire la Cina agli Stati Uniti, la rassegnazione del Move Forward in Thailandia, la Cambogia di Hun Sen (ancora), il Pakistan sempre più diviso e i consigli di lettura. L’Altra Asia è una rubrica sui paesi meno raccontati del continente (clicca qui per le altre puntate)
Quando si cerca di raccontare una guerra, come quella in Myanmar, fare affidamento sui numeri è una propensione quasi naturale, automatica. Il numero dei morti, il numero dei feriti, il numero degli sfollati, il numero di chi ha bisogno di assistenza umanitaria, il numero dei bombardamenti e così via. Di numeri ha parlato anche la funzionaria delle Nazioni Unite (ONU) Lisa Doughten, intervenuta il 4 aprile davanti ai paesi membri del Consiglio di Sicurezza. «Non possiamo permetterci di dimenticare, o di aspettare», ha detto, «in tutto il Myanmar sta aumentando il numero di persone che soffrono la fame. Oggi le persone in stato di insicurezza alimentare nel paese sono 12,9 milioni, circa il 25% della popolazione [stimati 54 milioni di abitanti]».
Come prevedibile, l’appello di Doughten non ha smosso gli animi dei presenti. La Russia, alleata della giunta militare birmana, si è opposta all’utilizzo del Consiglio di Sicurezza per fare pressioni su Naypyitaw, visto che la situazione in Myanmar «non rappresenta una minaccia per la comunità internazionale». La Cina ha invece respinto la generica proposta degli Stati Uniti di chiedere all’Assemblea Generale dell’ONU (organo non vincolante) di limitare l’accesso del regime ad armi e carburante perché, sostiene Pechino, la guerra civile rappresenta una questione interna al Myanmar.
Nel suo bollettino di marzo, un mese prima della riunione del Consiglio di Sicurezza, l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA) aveva riportato che le persone che hanno bisogno di aiuti umanitari in Myanmar sono diventate 18,6 milioni, e che solo 3,2 milioni di loro hanno ricevuto una qualche forma di assistenza nel corso del 2023. Gli sfollati interni sono invece 2,8 milioni (prima del golpe del 2021 erano 300 mila). Secondo i dati rilasciati il 4 aprile dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (UNICEF), nel 2023 in Myanmar almeno tre persone al giorno sono rimaste vittime di mine antiuomo o ordigni inesplosi: in 599 incidenti sono rimaste uccise o mutilate 1.052 persone (più del 20% minorenni), contro le 390 vittime del 2022.
Come dimostra l’inazione della comunità internazionale, parlare con i numeri non basta, probabilmente per due motivi. Il primo riguarda la desensibilizzazione. La trasformazione della tragedia individuale di ogni persona uccisa, ferita, mutilata, sfollata in un altro numero da aggiungere alla lista è un’evidente forma di ingiustizia, e ostacola la formazione di un umano senso di empatia per le vittime.
Il secondo motivo è forse di natura “matematica”. La riduzione in numeri dei conflitti comporta che anche i più sanguinosi, come quello in Myanmar, vengano rapportati ad altri in una sorta di scala di importanza gerarchica. Tragedie “più grandi” e forse ritenute più urgenti dalla comunità internazionale (spesso per interessi politici), quali sono la guerra in Ucraina e il massacro in pochi mesi di decine di migliaia di civili palestinesi nella Striscia di Gaza, finiscono così per oscurare a livello mediatico tanti conflitti numericamente meno rilevanti.
Nonostante questo, raccontare la guerra in Myanmar facendo solo un generico riferimento ai civili che ogni settimana muoiono a causa del conflitto, quasi sempre per mano del regime militare, non può bastare per comprendere la portata del dramma vissuto da migliaia di cittadini birmani. A volte fornire dei numeri serve. Di seguito, un resoconto con le notizie dei bombardamenti e degli attacchi ai civili raccontati dai media del paese solo nell’ultima settimana (a causa delle difficoltà nelle comunicazioni, dovute alle azioni di disturbo dell’esercito birmano, molte arrivano con giorni di ritardo):
- Tra il 17 e il 24 marzo 31 persone sono rimaste uccise e 61 ferite a seguito dei bombardamenti dell’esercito nelle cittadine di Mrauk-U, Minbya e Myebon, nello Stato Rakhine. Lo riporta DVB.
- Lo scorso 30 marzo 3 civili (compresa una bambina di 10 anni) sono morti a causa di un’esplosione provocata da un ordigno rudimentale, lasciato in una busta di plastica, nel villaggio di Kalagone (regione di Yangon). Non è chiaro se l’ordigno fosse stato fabbricato da delle forze ribelli o da altri cittadini. Lo riporta DVB.
- Il 31 marzo a Nord Dagon (Yangon) alcuni militanti delle forze di resistenza hanno ucciso a colpi d’arma da fuoco un funzionario locale del regime, ferendo anche sua moglie, perché incaricato di reclutare i giovani nell’esercito. Sono più di 10 gli impiegati locali uccisi nelle ultime due settimane per questo motivo (più di 20 in totale), nonostante il governo democratico in esilio (NUG) abbia chiesto di non farlo, in quanto civili. Lo riporta l’Irrawaddy.
- Il 31 marzo l’esercito birmano ha bombardato un monastero buddhista dove avevano trovato rifugio decine di sfollati nella città di Papun, nello Stato Kayin/Karen: 8 morti (compreso un monaco e una donna incinta) e 15 feriti. L’attacco è arrivato come ritorsione a seguito delle ultime conquiste del Karen National Liberation Army (KNLA) nell’area, scrive l’Irrawaddy.
- 2 persone, compreso un bambino, sono state uccise da un colpo di artiglieria sparato dalle truppe del regime a Dhammasa (Stato Mon), il 31 marzo. Altre due persone erano morte per dei bombardamenti nei giorni precedenti, scrive DVB.
- Il 1° aprile a Taikkyi (Yangon) un giovane di 27 anni, padre di due bambini, è stato picchiato a morte da alcuni soldati per essersi rifiutato di mangiare del maiale. Era entrato solo da quattro giorni nell’esercito a seguito della prima ondata di reclutamenti obbligatori. Lo riporta Frontier.
- Il 1° aprile un bombardamento dell’esercito ha ucciso 5 persone, ferendone 3, a Jangmai (Stato Kachin). Fonti anonime delle forze armate hanno detto a DVB che si è trattato di un «errore».
- Il 2 aprile sono rimaste uccise 2 persone a seguito di un bombardamento dell’esercito nel villaggio di Kanhtauntkyi (Stato Rakhine), riporta DVB.
- Il 3 aprile altro bombardamento del regime ha ucciso 3 donne a Minbya (Stato Rakhine), ferendo 10 persone. Lo riporta DVB. Quasi tutti i residenti della città (40 mila persone), conquistata a febbraio dall’Arakan Army (AA), sono dovuti scappare a seguito dei combattimenti ripresi a novembre tra l’AA e l’esercito.
Chi si occupa di Myanmar deve fare i conti tutti i giorni con notizie come queste e con le foto, non pubblicabili, di uomini, donne e bambini massacrati. Per uscire dal circolo vizioso dei numeri e dare un volto a queste persone, un articolo di Frontier racconta la storia dell’epopea che una donna incinta ha dovuto affrontare per fuggire dallo Stato Rakhine e andare a partorire a Yangon, in condizioni più sicure. Alle centinaia di migliaia di sfollati del Rakhine mancano cibo, acqua, medicinali, assistenza medica, connessione telefonica e internet. Il tutto mentre intorno a loro si spara, scoppiano bombe, le case vengono date alle fiamme e il terreno è cosparso di mine antiuomo. È così in buona parte del Myanmar, dove i combattimenti sono più intensi.
MYANMAR/2 – LE ALTRE NOTIZIE, IN BREVE
Il 4 aprile alcuni gruppi appartenenti alle People’s Defence Forces (PDF), braccio armato del NUG, hanno organizzato un attacco coordinato con 28 droni su alcuni obiettivi militari nella capitale Naypyitaw. Secondo quanto riportato dall’Irrawaddy, 12 droni erano indirizzati verso alcune basi militari, 12 verso la base aerea di Aye Lar e 4 a casa del generale e leader della giunta militare, Min Aung Hlaing. I media di regime avevano detto di aver abbattuto almeno 13 droni, senza specificare se ci fossero stati danni o vittime. A quanto pare ce ne sono stati. Due soldati sono rimasti uccisi, 15 feriti. L’obiettivo dell’attacco era togliere forse l’ultima grande certezza rimasta al regime: quella di essere al sicuro nelle sue roccaforti interne. Non è più così.
Il 1° aprile il regime ha perso il controllo dell’avamposto di Sinlum Bum, che controllava da 60 anni, per mano del Kachin Independent Army (KIA). Si tratta di un punto strategico sul piano commerciale perché vicino al confine con la Cina. È una batosta per la giunta, che ha già perso il controllo di altre zone cruciali per il commercio transfrontaliero con la Repubblica popolare nello Stato Shan.
Il KNLA ha ormai conquistato circa l’80% di Myawaddy, città al confine con la Thailandia. L’8 aprile, secondo le prime notizie, un aereo con a bordo alcuni soldati avrebbe chiesto alle autorità thailandesi il permesso per atterrare a Mae Sot, in ritirata dalla città. Il regime smentisce che l’aereo trasportasse dei membri dell’esercito, ma la disfatta a Myawaddy sembra evidente, visto che centinaia di soldati si sono già arresi.
Il 6 aprile Julie Bishop, ex ministra degli Esteri australiana, è stata nominata come nuova inviata speciale dell’ONU per il Myanmar. Il posto era vacante dal luglio 2023, ma si tratta di «una posizione totalmente inutile usata come una foglia di fico dalle Nazioni Unite per giustificare decenni di inazione», scrive Frontier.
INDONESIA – PRABOWO ALL’ESTERO, TIMORI IN PATRIA
Quella appena trascorsa è stata una settimana impegnativa per il presidente indonesiano eletto e attuale ministro della Difesa, Prabowo Subianto. L’ex generale ha visitato in serie Cina (31 marzo-2 aprile), Giappone (3 aprile) e Malaysia (4 aprile) per rafforzare le relazioni economiche, diplomatiche e di sicurezza con i tre paesi. A Pechino Prabowo ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping, che ha ricordato il ruolo della Repubblica popolare come principale partner commerciale e di investimento di Giacarta, auspicando inoltre a una maggiore cooperazione sul piano della Difesa. Il futuro presidente non si è tirato indietro e ha definito la Cina un «partner chiave per assicurare la pace e la stabilità regionale». Prabowo ha poi detto di voler «imparare» dall’esperienza di governo del Partito Comunista Cinese, riporta Xinhua. Secondo diversi analisti, il particolare tempismo della sua visita in Cina (è difficile che Pechino accolga un leader straniero prima ancora del suo insediamento ufficiale) rientra nel tentativo cinese di portare dalla propria parte l’Indonesia ora che nel Mar cinese meridionale le Filippine si sono spostate totalmente sul fronte “occidentale”. Non a caso, scrive il Diplomat, il Mar cinese meridionale non viene mai menzionato nei resoconti del vertice con Xi.
È dunque probabile che Prabowo seguirà le orme di Joko Widodo anche a livello diplomatico, rendendo le questioni economiche (la Cina ha promesso nuovi investimenti) la priorità della sua agenda di politica estera. Con un atto di bilanciamento diplomatico, sempre alla Jokowi, il futuro capo dello stato indonesiano ha incontrato il premier giapponese Fumio Kishida a Tokyo, dicendosi aperto a «tutti gli investitori» e a rafforzare la partnership di sicurezza con il Giappone. Stesso concetto ripetuto anche al premier malaysiano Anwar Ibrahim, che a sua volta ha detto che l’amicizia tra i due paesi «deve continuare».
Intanto, sul fronte interno, Prabowo dovrà affrontare la corruzione endemica del settore minerario indonesiano, legata non solo al nichel (componente fondamentale delle batterie delle auto elettriche di cui l’Indonesia è il principale produttore mondiale). C’è poi il timore che con il suo insediamento, che avverrà il 20 ottobre, la libertà di espressione e di ricerca degli accademici indonesiani (e degli studiosi stranieri di Indonesia) si ridurrà di molto. I segnali non sono positivi.
ASEAN – W LA CINA, ABBASSO GLI STATI UNITI
Secondo un sondaggio del think tank singaporiano ISEAS, la maggior parte dei cittadini residenti nei paesi membri dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) preferisce la Cina agli Stati Uniti. Se dovessero scegliere tra le due superpotenze, riporta il sondaggio, il 50,5% si schiererebbe con Pechino e il 49,5% con Washington. È la prima volta da quando si effettua annualmente questa indagine (dal 2020) che la Repubblica popolare passa in vantaggio: nel 2023 si era fermata al 38,9%. Anche per questo è difficile affermare che il risultato sia parte di una tendenza e non di un cambiamento repentino, dovuto a vari fattori. I paesi in cui la Cina gode di maggiore supporto sono Malaysia, Indonesia e Laos. I primi due sono stati a maggioranza musulmana, fortemente critici nei confronti dell’approccio americano a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza. Il Laos è invece uno dei paesi che ha maggiormente beneficiato degli investimenti cinesi nell’ambito della Belt and Road Initiative (BRI).
Intanto, oltre a Prabowo, la scorsa settimana la Cina ha accolto i ministri degli Esteri di Timor Leste
(Bendito Dos Santos Freitas), Laos (Saleumxay Kommasith) e Vietnam (Bui Thanh Son). Anche questo, secondo vari analisti, rientra nell’ottica cinese di mantenere un certo grado di influenza sui paesi delle regione per contrastare gli Stati Uniti. In cambio Pechino ha promesso a tutti supporto economico. Nel weekend si è tenuto inoltre il meeting dei ministri delle Finanze ASEAN a Luang Prabang, in Laos, senza grandi novità (qui il comunicato finale).
THAILANDIA – IL REGNO DOVE REGNA LA RASSEGNAZIONE
Il 3 aprile la corte costituzionale thailandese ha annunciato di aver accettato di prendere in considerazione la petizione della commissione elettorale che ha chiesto lo scioglimento del Move Forward, perché ci sono «prove ragionevoli» che il partito abbia violato la legge proponendo di riformare la norma sulla lesa maestà (qui per maggiori dettagli). Se la corte decreterà lo scioglimento del partito, accusato di aver tentato di rovesciare il sistema di monarchia costituzionale, tutti i suoi vertici verranno squalificati dalla vita politica. Tra loro c’è ovviamente Pita Limjaroenrat, leader de facto degli arancioni. Con un post sui social, il 5 aprile, Pita ha praticamente alzato bandiera bianca: «Mi è stato impedito di governare ma non mi pento di essere stato all’opposizione», ha scritto, «sono pronto ad andarmene come un vincitore (…) sciogliere il partito potrebbe anche accelerare il percorso verso la vittoria». Il Move Forward ha 15 giorni per presentare la sua difesa alla corte, ma tutti sembrano già sapere come andrà a finire.
La scorsa settimana si è tenuto anche un dibattito parlamentare sull’andamento del governo, criticato dall’opposizione. Ci si aspetta un rimpasto nelle prossime settimane. Il 2 aprile il senato ha poi approvato a grande maggioranza (147 sì, 4 no, 7 astenuti) la prima lettura della legge sul matrimonio egualitario. La seconda è prevista a luglio: alla terza approvazione, dopo il consenso reale, sarà legge (qui per maggiori dettagli). Sui problemi economici della Thailandia e la discordia tra il premier Srettha Thavisin e la banca centrale thailandese, un articolo di Al Jazeera.
CAMBOGIA – ANCORA TU
Il 3 aprile Hun Sen è stato nominato all’unanimità (3 voti sono arrivati anche dai senatori dei partiti di opposizione) presidente del senato cambogiano, come ampiamente previsto dopo le elezioni indirette di febbraio. L’ex primo ministro torna così a rivestire un ruolo istituzionale solo pochi mesi dopo aver lasciato il potere a suo figlio Hun Manet, e sembra che ora i due si divideranno i doveri diplomatici. Come presidente del senato, Hun Sen è secondo solo al re Norodom Sihamoni: quando il re sarà all’estero Hun Sen potrà firmare le leggi in quanto capo dello stato temporaneo. Non è un’ipotesi così remota, visto che il re cambogiano si è recato in Giappone già lo scorso weekend, per esempio.
A fine marzo due navi militari cinesi sono entrate nella base navale di Ream. Secondo molti osservatori la Cambogia ha concesso parte della base in esclusiva alle forze armate cinesi, in cambio di supporto economico per il suo ammodernamento. Sia Pechino che Phnom Penh hanno sempre smentito. Poi una brutta notizia: il Phnom Penh Post, uno degli ultimi quotidiani cambogiani in lingua inglese, ha cessato le pubblicazioni.
PAKISTAN – UNO SCANDALO DOPO L’ALTRO
L’Alta corte di Islamabad ha sospeso una delle sentenze di condanna dell’ex primo ministro Imran Khan, cioè quella a 14 anni relativa allo scandalo sui regali di stato (qui per maggiori dettagli). Khan resterà in carcere perché condannato per altri reati. Pochi giorni prima della decisione del tribunale, arrivata il 1° aprile, sei giudici della stessa corte avevano pubblicato una lettera nella quale accusavano l’intelligence pakistana (ISI) di aver interferito nelle questioni giudiziarie, facendo pressioni proprio nei casi riguardanti Khan. Si parla di minacce, sorveglianza, torture e rapimenti.
Nel frattempo si è votato per eleggere metà del senato pakistano, che viene rinnovato parzialmente ogni tre anni dai deputati delle quattro assemblee provinciali (e una piccola parte col voto dei deputati nazionali). Il partito di Khan, Movimento per la Giustizia del Pakistan (PTI), ha boicottato il voto in Khyber Pakhtunkhwa e ora 11 seggi restano vacanti. Il 9 aprile è prevista la nomina di presidente e vicepresidente, ma tutto il processo è stato viziato da controversie. La conseguenza è che l’opinione pubblica potrebbe aver perso ancora più fiducia nelle istituzioni.
LINK DALL’ALTRA ASIA
Domenica 7 aprile le Filippine hanno tenuto delle esercitazioni militari congiunte nel Mar cinese meridionale con Stati Uniti, Australia e Giappone. Questa settimana il presidente Ferdinand Marcos Jr. si recherà a Washington, dove è previsto un bilaterale col presidente americano Joe Biden e poi un trilaterale con Biden e il primo ministro giapponese Fumio Kishida. Ne avevamo parlato qui.
Parte dei creditori dello Sri Lanka starebbero per accettare di sospendere fino al 2028 i pagamenti di Colombo, che avrebbe così quattro anni per stabilizzare la propria economia prima di iniziare a saldare i debiti. Lo riporta il Nikkei. Allo Sri Lanka avevamo dedicato l’approfondimento della scorsa settimana (qui).
Il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev ha ricevuto il ministero della Sicurezza Pubblica cinese, Wang Xiaohong, a Tashkent. I due hanno parlato di rafforzare le relazioni bilaterali e la cooperazione contro terrorismo, estremismo e separatismo.
Il 26 marzo il presidente kazako Qasym-Zhomart Toqaev ha incontrato sia un senatore americano (Steve Daines) che il governatore della regione autonoma cinese dello Xinjiang, Erkin Tuniyaz, sanzionato dagli Stati Uniti. Si è trattato dell’ennesimo atto di bilanciamento diplomatico del Kazakistan, ha scritto Radio Free Europe.
A cura di Francesco Mattogno