Tutto è cominciato il 14 febbraio, quando almeno 300 tibetani hanno protestato pacificamente davanti agli edifici governativi della contea di Dege chiedendo di sospendere la costruzione della diga
Pianti di sottofondo e monaci prostrati mentre la polizia si fa largo tra la folla. Sono alcune delle immagini delle proteste andate in scena lo scorso mese nella provincia cinese del Sichuan, dove il governo vuole procedere con la distruzione di numerosi templi e villaggi per fare posto a una diga. Centinaia di persone hanno preso parte alle rimostranze, tra le più massicce degli ultimi anni nel cosiddetto “Tibet storico”, l’area caratterizzata da una forte presenza tibetana al di fuori della regione autonoma propriamente detta Tibet.
Stando all’International Tibet network, tutto è cominciato il 14 febbraio, quando almeno 300 tibetani hanno protestato pacificamente davanti agli edifici governativi della contea di Dege chiedendo di sospendere la costruzione della centrale idroelettrica e la ricollocazione dei residenti nell’area circostante. Riprese diffuse da Radio Free Asia (RFA) mostrano i monaci ingionocchiati davanti ai funzionari cinesi in visita per supplicarli di fermare la costruzione della diga. Tutto inutile. Il 22 febbraio oltre 100 persone, compresi diversi religiosi, sono stati portati via dalla polizia. Numero, secondo l’emittente americana, salito il giorno seguente a circa 1000 detenzioni. Diverse persone sono state ricoverate in ospedale dopo aver riportato lesioni nelle colluttazioni con la polizia, che secondo il sito Bitter Winter (ma non secondo le prove video), ha utilizzato idranti, spray al peperoncino e taser per disperdere la folla. L’ultimo aggiornamento disponibile è del 27 febbraio, quando una quarantina di manifestanti risultava nuovamente in libertà. Effetto – dicono fonti di RFA – dell’interessamento di alcuni membri del Congresso americano nonché delle autorità canadesi. Raduni in sostegno di Dege si sono tenuti in India, sede del governo tibetano in esilio.
La vicenda è in realtà tutt’altro che conclusa. Secondo notizie comparse su Sohu.com, il segretario del partito della contea, Baima Zhaxi, nei giorni scorsi si sarebbe recato nelle aree coinvolte per tenere “conversazioni cordiali con le masse”. Il “compagno” Baima ha rimarcato “il grande significato e la necessità della costruzione di centrali idroelettriche, indicando che il comitato del partito e il governo proteggeranno i legittimi interessi delle masse”. Ma, minacciando nuovi arresti, ha anche invitato a “rispettare la legge, esprimere le proprie richieste in modo legale, civile e razionale, altrimenti verrete trattati in conformità con la legge e i regolamenti”. Per quanto un parziale blocco di internet abbia reso più difficile raccogliere informazioni, anche negli ultimi giorni diversi testimoni hanno continuato a denunciare intimidazioni, requisizione dei cellulari e nuovi fermi.
La diga in questione si trova a Wontok (Gangtuo in cinese), nella prefettura autonoma tibetana di Kardze, e fa parte di un piano più ampio annunciato dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma nel 2012: il più grande complesso idroelettrico di tutta la Cina, che comprenderà una ventina di dighe nell’area protetta dei tre fiumi Yangtze, Mekong, e Salween. Il progetto, da 3 miliardi di dollari, coinvolge le province del Sichuan, Yunnan, oltre alla regione autonoma del Tibet. Con una capacità totale prevista di 13.920 megawatt, sarà in grado di generare più elettricità della controversa diga delle Tre Gole. Il paragone risulta calzante anche sul piano dell’impatto sociale. Per fare posto all’impianto di Gangtuo 50 villaggi verranno rasi al suolo. Circa 100.000 persone rischiano di dover lasciare per sempre la propria casa.
Storie del genere sono piuttosto comuni un po’ in tutta la Cina, dove secondo l’ong International Rivers negli ultimi decenni la costruzione di quasi 90.000 dighe ha richiesto il trasferimento di 23 milioni di persone. Ben 1,4 milioni solo per la diga delle Tre Gole. L’altopiano tibetano, ricco di risorse idriche, risulta tuttavia tra le aree in cui il fenomeno è più evidente. La regione ospita infatti un quinto della fornitura mondiale di acqua dolce. Il deflusso dai ghiacciai himalayani alimenta fiumi che irrorano quasi tutti i paesi del del Sud-est asiatico e dell’Asia meridionale. All’incirca 1,8 miliardi di persone dipendono dalla regolarità di questi corsi d’acqua.
Ad aumentare l’impopolarità delle dighe si aggiunge il fatto che l’elettricità prodotta presso i controversi impianti non verrà sfruttata a livello locale, bensì inviata dalle aree tibetane attraverso infrastrutture di trasmissione ad altissima tensione verso le regioni industriali della Cina orientale. Secondo gli obiettivi annunciati da Pechino, entro il 2060 la seconda economia mondiale dovrà raggiungere la neutralità carbonica. L’energia idroelettrica costituisce una scorta strategica per integrare la produzione solare ed eolica, soggetta ad alterazioni stagionali. Motivo che spiega la rapida diffusione delle dighe, nonostante l’opposizione tanto dei residenti quanto degli ambientalisti.
Non è chiaro quali condizioni otterranno gli abitanti dei villaggi delocalizzati. Come ricorda Human Right Watch, Pechino ha firmato il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, secondo cui gli sfratti per essere “legittimi” devono perseguire “il solo scopo di promuovere il benessere generale in una società democratica” e devono essere effettuati “nel rigoroso rispetto delle pertinenti disposizioni del diritto internazionale sui diritti umani e in conformità con i principi generali di ragionevolezza e proporzionalità”. Stando all’Ong, “gli sgomberi di massa nelle aree tibetane spesso non hanno rispettato questi standard fondamentali”.
Oltre allo spostamento degli insediamenti abitati, la costruzione dell’impianto di Gangtuo prevede anche la distruzione di sei importanti istituti religiosi. Nel mirino delle ruspe figura anche il monastero di Wonto, risalente al XIII secolo e noto per i suoi pregevoli affreschi.
Non è la prima volta che la demolizione di siti buddhisti provoca il risentimento della comunità tibetana e internazionale. Nel 2016, ha fatto molto discutere la “ristrutturazione” di Larung Gar, la più grande scuola filosofica del Tibet, frequentata da monaci, monache e studenti laici di origine tibetana, cinese e di altri paesi asiatici. Dopo aver sottoposto il complesso a varie demolizioni, il governo cinese ha stabilito di dimezzare la popolazione residente a non più di 5000 persone. Come a Gangtuo, anche a Larung Gar gli sfratti sono stati condotti senza consultare i residenti.
“Un aspetto interessante della storia è perché la distruzione dei monasteri e il trasferimento dei tibetani sono importanti per le comunità della diaspora”, ci dice Timothy Grose, docente del Rose-Hulman Institute of Technology ed esperto di Tibet. Il tempismo potrebbe aver influito sull’inusuale visibilità ottenuta dalle proteste, nonché sulla tempestività delle autorità nel reprimerle. Il 10 marzo è ricorso l’anniversario della Rivolta Tibetana, il movimento di resistenza contro l’occupazione cinese che nel 1959 ha visto migliaia di persone perdere la vita. Tutt’oggi la data viene considerata “sensibile”. Secondo l’agenzia di stampa Xinhua, tra il 10 e il 25 marzo 2008 si sono verificate oltre 150 proteste nell’area dell’altopiano tibetano, con almeno 23 vittime accertate (400 secondo il Dalai Lama). Da allora il controllo delle autorità si è intensificato.
Precluso l’accesso ai giornalisti stranieri senza autorizzazione, le informazioni sulla regione arrivano tramite Radio Free Asia, finanziato dal governo americano, e siti legati alla diaspora tibetana. Oppure c’è la versione cinese. “L’anno scorso non si sono verificati gravi incidenti di massa, incidenti politici o atti terroristici violenti”, ha annunciato il vicegovernatore del Tibet Yan Jinhai a margine delle “Due sessioni”, la plenaria chedal 5 all’11 marzo ha riunito il parlamento e il massimo organo consultivo della Repubblica popolare. Rimarcando l’attenzione di Pechino per il benessere dei tibetani, il funzionario ha inoltre specificato che dal 2012 il governo centrale ha elargito sussidi fiscali per oltre 1,7 mille miliardi di yuan (236 miliardi di dollari), il 90,3% del budget pubblico della regione autonoma.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Gariwo Onlus]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.