In Cina è sempre più popolare lo stile di vita che consente la libertà e la flessibilità di lavorare da remoto nelle aree rurali come alternativa a grandi città sempre meno accessibili. Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio di Milano. Qui per recuperare le entrate puntate.
Se per anni Pechino ha cercato di incoraggiare i talenti del paese a mettere a frutto le proprie competenze nelle aree rurali per contribuire a colmare il divario di sviluppo con i centri urbani, le città attraggono perché ancora garanti di maggiori opportunità. Ma ora la tendenza potrebbe invertirsi. Lo scorso anno il tabloid in lingua inglese Global Times ha affermato che sempre più giovani hanno risposto agli appelli di Xi Jinping per la rivitalizzazione rurale e “si sono dedicati allo sviluppo delle campagne della nazione”.
Più che le mobilitazioni del Partito, a cambiare il trend sembra essere una commistione di rifiuto della concezione tradizionale del lavoro e limiti imposti dal carovita delle città. Il risultato è che il nomadismo digitale sta diventando un’alternativa sempre più conosciuta tra le nuove generazioni della Repubblica popolare. Con questa espressione si intende, in mancanza di una definizione univoca ma sulla base di quella riconosciuta, ad esempio, anche dal governo italiano, cittadini “che svolgono attività lavorativa altamente qualificata attraverso l’utilizzo di strumenti tecnologici che consentono di lavorare da remoto”.
In un rapporto pubblicato nel 2022 e condotto dalla National School of Development dell’Università di Pechino e da Zhaopin, una delle principali piattaforme di reclutamento online del paese, è emerso che il 76,4% delle persone nate negli anni Duemila è disposto ad adottare questo stile di vita per non essere vincolato da luoghi e orari.
Per metterlo in pratica serve, innanzitutto, una professione che si possa svolgere da remoto. Oltre a normalizzare la pratica del lavoro da casa, la pandemia ha giocato un ruolo centrale nella crescita delle professioni delle piattaforme. Il rapporto sopra citato ha anche evidenziato che durante la crisi di Covid-19 è aumentato il numero di persone con lavori part-time online: ad oggi il 15% dei nati dopo il Duemila ha un’entrata extra grazie a competenze nei campi del tutoring online, della finanza, della consulenza, della fotografia e altre espressioni artistiche, oltre che nel settore dell’intrattenimento e dei social media. Un altro indicatore importante è che meno del 20% di questi lavori della gig economy richiede una laurea: prospettive alla lunga migliori rispetto a quelle offerte dal mercato del lavoro tradizionale, che invece è caratterizzato dalla iper professionalizzazione (qui una puntata di Dialoghi dedicata al mondo dell’istruzione superiore) e al contempo incapace di offrire opportunità adeguate.
Le ragioni che spingono i giovani cinesi a scegliere il nomadismo digitale sono le stesse che vediamo nei paesi occidentali: il carico di lavoro full time, se non quando 996, è considerato insostenibile e a ciò si aggiunge la possibilità di trovare un impiego da grande città senza dover effettivamente vivere in città. Sul web c’è chi racconta di aver lasciato un appartamento da 5 mila yuan a settimana per una casa in campagna a meno di 1500 yuan (650 euro a fronte di neanche 200).
“Probabilmente hanno realizzato il sogno di molti “colletti bianchi”. Fare soldi nelle città di prima-fascia e spenderli in quelle di terza o quarta fascia”, afferma un video della piattaforma Xiaohongshu. La nota app, un ibrido tra social media e piattaforma di e-commerce, si presenta come una vetrina per trend di moda, turismo e lifestyle. Secondo i dati a disposizione, nel corso del 2022 le ricerche inerenti al nomadismo digitale sono cresciute del 650%.
Nel video si elencano i benefici di uno stile di vita che permette di lavorare seduto di fronte al pc sulle sponde del lago Erhai, nello Yunnan, o da un caffè con vista sulle risaie di Yuanyang, sempre nella provincia sudoccidentale della Repubblica popolare. Un luogo che sempre di più si prefigura come meta privilegiata dei nomadi digitali, non solo quelli cinesi. Nella “guida definitiva” proposta dal sito The Digital Nomad Asia sul nomadismo digitale in Cina, lo Yunnan è di fatto al primo posto tra i luoghi consigliati, assieme alla città di Anji, nella provincia di Zhejiang: a sole tre ore di auto da Shanghai, il centro urbano ospita la Digital Nomad Anji, una comunità che ha rimodulato una vecchia fabbrica in spazi adatti al co-working e al co-living, che favoriscono “un senso di comunità e collaborazione”.
Sulla base dei dati che la comunità ha raccolto nel recente periodo, questa scelta sembra configurarsi come un periodo di transizione, un’avventura per chi vuole sperimentare una vita diversa prima di tornare a piegarsi alle pressioni sociali e genitoriali. Nel 2023 il 65% dei suoi membri era nomade da meno di un anno e il 19% era senza lavoro o studente. La stessa indagine riporta anche che tra i cinesi i freelance sono meno rispetto alla media globale, secondo cui il 42% di nomadi digitali lavora per più committenti. A Digital Nomad Anji, invece, oltre il 40% sono occupati a tempo pieno (e da remoto) in un’azienda: i settori più comuni sono quello della tecnologia dell’informazione, la comunicazione e il design.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Se si sorvola sulle discussioni di carattere etico (sui limiti di un sistema che prevede la fruizione delle città da parte di residenti temporanei che, citando un articolo di Sarah Gainsforth su Internazionale, “non pagano per farle funzionare”), non è raro imbattersi nei racconti delle difficoltà incontrate.
Su Sixth Tone Su Jing Her e Fan Yiying riportano la storia di Yuan Bingyan, che dopo essere stata licenziata alla fine del 2019 decide di mettere in pratica l’idea di combinare lavoro e viaggi. Yuan sceglie di far fruttare l’indennità di licenziamento per avviare un’attività online come consulente di orientamento professionale e lascia la caotica Shanghai per un affitto più economico nella vicina Kunshan, città di circa un milione di persone nella prefettura di Suzhou.
Ma la donna si rende conto che le entrate che riesce a racimolare non possono competere con lo stipendio mensile di 30 mila yuan (quasi 4 mila euro) che percepiva grazie al vecchio lavoro. Inoltre, la gestione della routine per far cooperare svago e obblighi lavorativi genera in lei un’ansia sempre maggiore. Ben presto “il paradiso di uno stile di vita idilliaco si frantuma”.
Marchigiana, si è laureata con lode a “l’Orientale” di Napoli con una tesi di storia contemporanea sul caso Jasic. Ha collaborato con Il Manifesto, Valigia Blu e altre testate occupandosi di gig economy, mobilitazione dal basso e attivismo politico. Per China Files cura la rubrica “Gig-ology”, che racconta della precarizzazione del lavoro nel contesto asiatico.