Dallo scorso 18 agosto sulla piattaforma di streaming Netflix è possibile accedere al lungometraggio animato The Monkey King, ultima fatica di Anthony Sacchi, che sacrifica il rigore storico per piacere ai giovani
Dallo scorso 18 agosto sulla piattaforma di streaming Netflix è possibile accedere al lungometraggio animato The Monkey King, ultima fatica di Anthony Sacchi prodotta da Peilin Chou e Stephen Chow con protagonista lo scimmiotto Sun Wukong, eroe del classico Viaggio in Occidente.
Sacchi è un esperto regista di film d’animazione, con diversi successi all’attivo (The Boxtrolls e Pinocchio di Guillermo del Toro fra gli altri) mentre il nome di Peilin Chou dovrebbe essere già entrato nel radar di sinologi e sinofili, visto il suo impegno in animazioni che potremmo definire di interesse sinofono come Kung Fu Panda 3 (DreamWorks Animation, China Film Group Corporation, Oriental DreamWorks), Abominable (Dreamworks, Pearl studio) e Over the Moon (Netflix, Pearl studio). Il vero “pezzo grosso” del gruppo è però sicuramente Stephen Chow, conosciutissimo attore, regista e produttore di Hong Kong. Chow ha raggiunto fama internazionale con Shaolin Soccer nel 2001 e i suoi rapporti con lo scimmiotto Sun Wukong sono di lunga data: risalgono agli anni Novanta i popolarissimi A Chinese Odyssey. Nel 2013 si lega ulteriormente allo Scimmiotto come regista e produttore di Journey to the West, conquering the Demons (西遊降魔篇).
E dunque questa animazione viene realizzata con i migliori presupposti: esperti del settore ed esperti della storia dello Scimmiotto si incontrano per creare un prodotto transnazionale che porti alla ribalta un personaggio sì conosciuto, ma mai abbastanza. Insomma, i tre tentano un Viaggio in Occidente in CGI che ha tutte le potenzialità per essere compreso da un ampio pubblico (a differenza del film animato Monkey King: Hero is back, 西游记之大圣归来, del 2015, che non ha avuto la stessa distribuzione ed è ben poco conosciuto in Italia).
Quest’ultimo ma di certo non definitivo adattamento attinge alla prima parte del classico della narrativa cinese Viaggio in occidente. Il romanzo di epoca Ming (XVI secolo), si apre infatti con sette capitoli dedicati all’eclettico personaggio dello scimmiotto, Sun Wukong, tracciando così un solco nella storia della narrativa, sinofona e non, sul quale si innesteranno centinaia di adattamenti. Discutere le ragioni per cui tale personaggio sia diventato il vero e proprio protagonista di un romanzo di ispirazione religiosa e etnografica – il vero viaggio di un monaco verso le terre d’occidente (ossia l’India, perché tutto è relativo) – esula dai confini di questa recensione, ma è necessario evidenziare come questa scimmia antropomorfa, potentissima perché divina e demoniaca, continui ad alimentare creatività e attirare attenzione del pubblico. Con esiti più o meno soddisfacenti.
Tra le novità di The Monkey King vi è la presenza di una co-protagonista, la giovane contadina Lin, e il focus sull’inimicizia tra Sun Wukong e il Drago re dei mari. Queste polarizzazioni (demone/umana e demone/divinità), che semplificano e appiattiscono le dinamiche contenute negli “originali” sette capitoli, rivelano l’intenzione di semplificare e attualizzare la storia, indirizzandola a un pubblico contemporaneo giovane, che può riconoscersi in Lin e divertirsi con il fare teatrale del Re Drago. Una trovata degli autori, che si comprende però quasi esclusivamente nella versione in lingua inglese, è stata quella di assumere come doppiatori degli stand up comedian molto conosciuti negli USA (uno di questi è colui che dà la voce al drago, Bowen Yang, star di Saturday Night Live). Purtroppo però i dialoghi non sono all’altezza degli interpreti e la scrittura non risulta brillante a un pubblico adulto.
Tornando alla trama, la necessità di tagliare molti episodi e dettagli per rendere il film più comprensibile a una platea internazionale porta a perdere degli aspetti fondamentali del percorso dello scimmiotto, quali, ad esempio, gli allenamenti e la “coltivazione” fisica e spirituale che lo portano ad acquisire i poteri che pure vediamo sfoggiati nel film (le 72 trasformazioni). Altri episodi sono invece riassunti in quella che è probabilmente la scena più bella dell’opera, non a caso realizzata in un raffinato 2D, nella quale in pochissimi minuti vengono mostrati combattimenti e vittorie di Sun Wukong su cento demoni (atto che dovrebbe garantirgli l’immortalità…). A tagli e riassunti si affiancano ampliamenti, necessari a costruire narrativamente il rapporto tra lo Scimmiotto e la sua aiutante Lin, ma che purtroppo non raggiungono il bersaglio: il legame non convince, non scatta quel quid che dovrebbe portare a empatizzare ed emozionarsi. Ciò risulta dal fatto che i personaggi non sono ben costruiti ma solo accennati o macchiettistici. Questo Sun Wukong non è né eroe rivoluzionario, come quello di epoca maoista, né l’eroe innamorato e adulto di A Chinese Odyssey.
Il difetto maggiore è tuttavia una certa disorganizzazione narrativa, che porta a non comprendere il focus del racconto (e dunque ciò a cui lo spettatore dovrebbe appigliarsi per sentirsi coinvolto). Troviamo richiami all’importanza della famiglia, del senso di appartenenza a un nucleo affettivo, commenti sull’amicizia e una messa in scena del razzismo e del conflitto di classe veicolata lo snobismo degli dei che non accettano lo Scimmiotto tra le loro fila. Lo stesso scontro con il Re Drago è divertente, ma non ha il sapore di un vero dissidio e il finale, che mira all’empowering della co-protagonista femminile – un tocco à la Netflix che non può passare inosservato- risulta comunque poco coerente.
Agli appassionati della storia il film può dunque non piacere, poiché mancano alcuni snodi importanti che avrebbero permesso di comprendere meglio il contesto nel quale il dissidio tra lo scimmiotto e l’Imperatore di Giada nasce e matura. Il banchetto degli dei, al quale Sun Wukong non è invitato, avrebbe dato la possibilità di mostrare un mondo che appare solo di sfuggita. La scelta di mantenere i personaggi primariamente sulla terra e nel mare diminuisce infatti le potenzialità immaginifiche dell’opera e non solo quelle narrative. Tuttavia, come adattamento The Monkey King è molto interessante dal punto di vista sinologico, per comprendere l’evoluzione del complesso personaggio di Sun Wukong nel mondo contemporaneo e per studiare le scelte che portano gli autori a operare tagli.
Dal punto di vista di un pubblico generalista, l’opera è comunque efficace. È divertente, leggera, e mantiene un ritmo molto veloce. Le scene di combattimento, cruciali anche nell’originale, sono ben costruite e soddisfacenti per un pubblico amante delle arti marziali (sono curate infatti da Stephen Chow). Ma soprattutto è bellissimo: l’animazione è estremamente curata, la palette è accattivante e rimanda a prodotti coevi particolarmente attraenti (ad es. Nimona). Si consiglia dunque soprattutto a chi non abbia troppa familiarità con Viaggio in Occidente, a chi ama la stand up comedy asio-americana e a chi cerca un’animazione di altissimo livello grafico.
In conclusione e nel complesso, il film appare come un prequel di qualcosa di meglio definito e si spera lo sia, anche sulla base delle parole del Buddha, che definisce la vita di Sun Wukong come a uno “scroll yet to be written”, una pergamena ancora da scrivere, e dell’apparizione finale di personaggi ben noti agli amanti del romanzo.
Di Martina Caschera
Ha conseguito il dottorato a Napoli ed è attualmente ricercatrice presso l’Università degli Studi di Bergamo. Si occupa primariamente di cultura visuale popolare (vignette, fumetti e animazioni), con un focus su prodotti transmediali e transculturali. Ha pubblicato una monografia dal titolo Il fumetto cinese (Tunué)