Asia Centrale – La graduale riapertura della Cina dopo tre anni di Covid nell’ultimo anno ha spinto il governo ad accelerare la creazione dei collegamenti su strada e rotaia con i paesi limitrofi. In questo piano di sviluppo delle periferie fin dall’inizio ha ricoperto un ruolo centrale il Xinjiang, la regione del Far West cinese, troppo lontana dalle coste per beneficiare di una crescita economica in buona parte ancora “export-oriented”.
Astana, 8 settembre 2013: il presidente cinese Xi Jinping, invita i paesi dell’Asia Centrale a costruire una “cintura economica lungo la Via della Seta”, “un progetto transeurasiatico che, estendendosi dall’Oceano Pacifico al Mar Baltico, coinvolgerà quasi 3 miliardi di persone” rappresentando “il più grande mercato del mondo con un potenziale senza pari”.
Xi’an, 19 maggio 2023: a distanza di dieci anni, Xi rilancia la Nuova via della seta annunciando un piano programmatico in tandem con le cinque ex repubbliche sovietiche. La sede – Xi’an – è l’antica capitale cinese da cui anticamente partivano le rotte carovaniere verso Occidente. Proprio qui la scorsa settimana si è tenuto il vertice C+5C. Il primo dalla caduta dell’Unione Sovietica, a riunire di persona i leader di Cina (la C), Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan (le 5C). Il simbolismo è elevatissimo, anche per via del contesto internazionale: la guerra in Ucraina e il raffreddamento dei rapporti tra Mosca e gli Stan, la sovrapposizione al G7 di Hiroshima. Ma soprattutto la necessità di dare nuovo smalto a un progetto che, un tempo punta di diamante della “Xiplomacy”, viene ormai associato all’elevatissimo indebitamento dei Paesi coinvolti.
L’Asia Centrale può ancora giocare un ruolo cruciale nella strategia estera di Pechino. Specialmente oggi che, il crescente isolamento in Occidente, rende persino più necessario coltivare relazioni cordiali con il cosiddetto Sud globale. Con un occhio al G7 e l’altro alla guerra russo-ucraina, a Xi’an si è parlato di nuovi gasdotti, scambi commerciali e investimenti bilaterali, ma anche di rispetto della “sovranità, indipendenza, sicurezza e integrità territoriale” di tutti i Paesi.
Difficile non scorgere nel vertice cinese un velato afflato revanscista. Se non altro per lo stile “neoimperiale” di drappi e lanterne rosse. Cimeli di un tempo in cui il Regno di Mezzo ancora controllava il “cuore dell’Asia”. Prima di venire sconfitto militarmente dalle popolazioni barbariche. Molto prima che la regione diventasse il “cortile” di Mosca. Tornarci oggi ha quindi il sapore di una rivincita.
Ma per Pechino l’Asia Centrale, ricca di risorse naturali e da sempre crocevia tra Est ed Ovest, ha innanzitutto una valenza economica, non politica. Per questo il parallelismo con il G7 di Hiroshima va maneggiato con cautela. Anche perché la penetrazione della Cina negli Stan non è cosa nuova. E’ cominciata almeno trent’anni fa. Lo stesso vale per il C+5C, in rodaggio dal 2015.
Certo, gli sviluppi recenti rispecchiano un rinnovato interesse per il quadrante. Non è un caso che a settembre Xi abbia scelto proprio il Kazakistan per il suo primo viaggio internazionale dell’era post-pandemia. Ma non è detto che il principale catalizzatore siano la guerra in Ucraina e la “nuova guerra fredda” con Washington. Piuttosto sembra la crescita interna la vera molla.
Il perché lo ha spiegato chiaramente il presidente cinese: “Dotata di vantaggi geografici unici, l’Asia Centrale ha le basi, le condizioni e le capacità giuste per diventare un importante nodo di connettività dell’Eurasia e dare un contributo unico allo scambio di merci, all’interazione delle civiltà e allo sviluppo della scienza e della tecnologia nel mondo”.
La graduale riapertura della Cina dopo tre anni di Covid nell’ultimo anno ha spinto il governo ad accelerare lo sviluppo dei collegamenti su strada e rotaia con i paesi limitrofi. Pensiamo alla ferrovia che connette la provincia cinese dello Yunnan al Laos, primo tratto di una rete indocinese che in futuro dovrebbe raggiungere Thailandia e Singapore. In questo piano di sviluppo delle periferie fin dall’inizio ha ricoperto un ruolo centrale il Xinjiang, la regione del Far West cinese al confine con Kazakistan, Tajikistan, Kirghizistan, Afghanistan e Pakistan.
Agli albori, la Nuova via della seta – o meglio la sua diramazione terrestre (la Silk Road Economic Belt) – doveva servire proprio a dare slancio alla regione occidentale, troppo lontana dalle coste per beneficiare di una crescita economica in buona parte ancora “export-oriented”. Ma, anche prima della pandemia, il grande piano di Xi era stato presto accantonato: al verificarsi di attacchi violenti, attribuiti ufficialmente alle infiltrazioni jihadiste d’oltreconfine, il governo centrale ha risposto con la rieducazione forzata delle minoranze islamiche che popolano il Xinjiang. La regione è stata blindata per diversi anni e la “Silk Road Economic Belt” congelata. Chiuse le “scuole” e smantellate le politiche sanitarie contro il Covid, l’impressione da qualche tempo è che Pechino voglia rimettere mano alle vecchie politiche di modernizzazione per stabilizzare l’area. Stavolta con lo sviluppo economico anziché con il pugno di ferro.
Ecco che gli scambi con gli Stan tornano ad essere fondamentali. Secondo i dati doganali, nei primi quattro mesi dell’anno la regione della Cina occidentale ha visto il suo commercio estero con le 5C aumentare del 92,2% a 75,11 miliardi di yuan (circa 10,7 miliardi di dollari). Risale solo a pochi giorni fa la conferma che il “corridoio economico Cina-Pakistan” verrà esteso all’Afghanistan. Non si sa ancora bene quando, ma l’inclusione dell’emirato talebano nel gigantesco progetto – il più grande per investimenti di tutta la Nuova via della seta – dimostra come Pechino voglia tornare a scommettere sul “cuore dell’Asia”. In questo senso, sì, la guerra russo-ucraina ha indubbiamente riacceso i riflettori sullo scacchiere centroasiatico.
Tra i numerosi accordi di cooperazione firmati a Xi’an due rispondono alla necessità di potenziare le connessioni di trasporto regionali: il memorandum tripartito per la (più volte posticipata) costruzione della ferrovia Cina-Uzbekistan-Kirghizistan e soprattutto l’intesa con il governo di Astana per lo sviluppo della Rotta internazionale di trasporto transcaspica (Titr). Il cosiddetto Corridoio di mezzo, a cui anche l’Europa guarda con crescente attenzione per aggirare la Russia e potenziare i commerci con l’Estremo oriente passando per l’Asia centrale, il Mar Caspio, il Caucaso e, infine, il Mediterraneo.
Si tratta di un’iniziativa infrastrutturale che mira allo sviluppo di porti e ferrovie, nata dieci anni fa su impulso dei Paesi del Caucaso e dell’Asia Centrale. Kazakistan in primis. Il progetto è tornato di attualità da quando l’invasione russa dell’Ucraina ha spinto i Paesi europei a sperimentare rotte di trasporto alternativi per i commerci con la Repubblica popolare e il Sudest asiatico. Dal punto di vista geografico, il Corridoio di mezzo rappresenta il percorso più breve esistente tra la Cina occidentale e il Vecchio Continente. Soprattutto consente di evitare l’utilizzo della rete ferroviaria russa e dribblare le sanzioni imposte dall’Occidente.
Restano alcuni nodi da sciogliere. Il primo è tecnico: sebbene le circostanze geopolitiche sembrino favorire questa rotta, attualmente rappresenta solo circa il 5% del commercio ferroviario intercontinentale e le infrastrutture rimangono ancora relativamente sottosviluppate. Senza contare che i molti attraversamenti di frontiera, trasbordi, e diversi regimi tariffari dilatano costi e tempi di percorrenza. Il secondo ostacolo è legato invece alla sicurezza.
Dal 2018, in Kazakistan si sono verificate 156 proteste anti-cinesi, molte delle quali motivate dal malcontento per la crescente influenza economica e politica di Pechino nel Paese. E poi continua ad aleggiare lo spettro del “terrorismo, radicalismo e separatismo etnico”, vero anatema di Pechino. Mantenere la stabilità in Asia Centrale è diventato più difficile dopo il ritorno dei talebani a Kabul. Ancora di più da quando Mosca, troppo distratta dalla guerra in Europa, sembra oggi meno incline ad assolvere il tradizionale compito di “security provider” regionale.
Insomma, passati dieci anni dal lancio della Nuova via della seta, le sfide restano molte. Ma, nonostante i rischi, la Cina pare determinata più che mai ad ampliare i confini del proprio impero economico.
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su Esquire]
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.