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Dialoghi – La parabola della “economia delle bancarelle” in Cina

In Dialoghi: Confucio e China Files, Economia, Politica e Società by Vittoria Mazzieri

Dopo anni di politiche votate al decoro urbano che tacciavano le bancarelle, soprattutto quelle di cibo, di portare sporcizia e rifiuti, l’“economia dei venditori ambulanti” sta gradualmente ritornando a ricoprire un ruolo centrale nel contesto cittadino. Un processo iniziato già nel 2020, quando gli stand sono stati riabilitati per contrastare la disoccupazione. Per i giovani lavoratori, sono diventati anche un’alternativa allo stress da “colletto bianco”. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica curata in collaborazione con l’Istituto Confucio di Milano.

Ravioli di vario genere, spiedini alla piastra piccanti o una sorta di crepes salate ripiene che rispondono al nome di jianbing, 煎饼. Le popolari bancarelle di cibo hanno riempito per lungo tempo gli spazi delle città cinesi, soprattutto di notte. Il settore ha apportato un contributo economico considerevole alla crescita economica del paese, e negli anni Ottanta e Novanta tra i venditori di strada figuravano anche personaggi che poi sono diventati noti miliardari della Repubblica popolare, come Jack Ma e il fondatore di Lenovo Liu Chuanzhi.

Punto di ristoro fidato per i locals, gli stand di cibo hanno incuriosito turisti interessati a conoscere il vero gusto della cucina cinese (a volte, probabilmente, anche in apprensione per cosa potesse finir loro in bocca). Ma l’“economia delle bancarelle” non ha attirato solo sguardi benevoli: nell’ultimo decennio il governo centrale ha promulgato norme per salvaguardare il decoro urbano che hanno limitato fortemente la sua diffusione. Poi, con il Covid, il settore è stato riabilitato per contrastare la disoccupazione. Di recente le autorità municipali di Shanghai e Chongqing hanno emanato nuove leggi per promuovere le attività ambulanti. Secondo alcuni, i cittadini della Cina della riapertura post-Covid sono più attenti e consapevoli. E possono tornare a mangiare per strada.

Un deciso no alla sciatteria

Da circa un decennio la cultura del cibo da strada è diventata uno dei nemici principali del decoro urbano: una sciatteria che è stato necessario arginare e nascondere vista la crescente rilevanza che la Cina ha guadagnato sul piano internazionale. Il governo della Repubblica popolare ha riconosciuto all’obiettivo di “costruzione di città civili e turistiche” (goujian wenming lüyou chengshi, 构建文明旅游城市) una importanza sempre maggiore. E nella concezione di “città civilizzata”, intesa come riconoscimento massimo che attesta l’alta qualità della vita nel contesto urbano, i carretti di cibo sono diventati rappresentazione massima del degrado.

Eliminarli, secondo il governo, ha portato benefici su più fronti: ripulire l’immagine delle città, e anche limitare le attività illegali, visto che molti venditori non erano in possesso di una licenza. Ma i divieti sono anche serviti a minare alla base il sostentamento dei lavoratori migranti, la forza lavoro a cui l’attività di gestione dello stand è tradizionalmente associata. Politiche governative specifiche hanno mirato ad allontanare la cosiddetta “popolazione di fascia bassa” (diduan renkou, 低端人口) dalle città cinesi, come dimostrano gli intenti di riqualificazione forzata che da fine 2017 hanno sfrattato in massa i migranti che abitavano nei quartieri periferici della capitale.

In genere, tuttavia, le attività ambulanti sono state ampiamente tollerate e per anni i gestori hanno giocato al gatto e al topo con i chengguan, 城管, i temuti responsabili della gestione urbana che ammonterebbero a più di un milione in tutto il paese.

Bancarelle unite contro la disoccupazione

Si pensava che la crisi pandemica non potesse fare altro che inasprire questa tendenza. Il mondo intero ha puntato il dito contro la mancanza di igiene degli wet market, tacciati di essere la causa principale della diffusione del virus. Solo dopo essersi probabilmente accertati del significato del termine su un qualche motore di ricerca, molti utenti di Europa e Stati Uniti si sono accaniti in invettive contro lo stato di sciatteria e sporcizia in cui riverserebbe questo genere di luoghi. Non mancando, spesso, di condividere dei video che avrebbero dovuto mostrare le carcasse di animali lasciate all’incuria del famigerato mercato di Wuhan, ma che si sono rivelate poi essere immagini che ritraevano un qualche mercato del Sud-Est asiatico.

A gennaio del 2020 Pechino ha chiuso il mercato all’ingrosso del frutti di mare di Huanan, a Wuhan, dove si pensa abbia avuto origine il virus. Il mese successivo il governo ha messo al bando il commercio di animali selvatici nel paese, ma si è ben guardato dal vietare gli wet market su scala nazionale. Anzi, in breve tempo le bancarelle dell’area hanno provato a riprendere gli affari, anche se, ha scritto Reuters all’epoca, “il loro futuro appare incerto, con pochi clienti, dato che lo stigma del virus persiste”.

Di fatto, attività di questo genere sono fondamentali per le esigenze quotidiane di milioni di cinesi. E con lo scoppio della crisi pandemica le istituzioni hanno visto nella “economia dei venditori ambulanti” un mezzo per contrastare la crescente disoccupazione. Così, il 27 maggio 2020 il Comitato centrale per la civilizzazione ha annunciato che i carretti di cibo non sarebbero stati considerati come parte della “valutazione della città civilizzata nazionale” per il resto dell’anno. In sostanza, non avrebbero inficiato il grado di decoro degli spazi urbani.

A ciò è seguito l’endorsement pubblico da parte di Li Keqiang: in visita nella provincia orientale dello Shandong, l’allora premier ha elegiato le bancarelle rimarcando l’intenzione del governo di sostenerle “per infondere nuova vitalità all’economia”. Il premier ha riconosciuto l’esempio di Chengdu, che da marzo 2020 ha permesso di aprire attività di strada in aree pedonali designate, portando alla creazione di “10 mila posti di lavoro”.

La riabilitazione delle bancarelle ha generato un entusiasmo collettivo. Se alcune città come Shanghai si sono astenute dal promulgare leggi permissive in tal senso nelle settimane successive, altri centri urbani più piccoli (Ruichang, nella provincia di Jiangxi, o Shijiazhuang, capoluogo dello Hebei) si sono subito accodati alla nuova visione nazionale. Alcune Big Tech come Alibaba, Tencent e JD hanno annunciato programmi di sovvenzione su larga scala per sostenere i venditori ambulanti.

Sul web molti utenti si sono spesi in lunghi encomi dei molti benefici degli stand di cibo, tra cui facili guadagni per i gestori e la bontà delle leccornie vendute. Molti hanno commentato in maniera sarcastica questo improvviso cambio di rotta: “Chi avrebbe mai pensato che sarebbe arrivato il giorno in cui i chengguan avrebbero invitato i venditori a scendere in strada?”.

Una esagitazione virtuale che si è pensato di dover contenere: i media di alcune grandi città si sono affrettati a spiegare che “le bancarelle esercitano una pressione visibile sulla gestione urbana, l’ambiente, l’igiene e il traffico”. Di fatto, la discussione sul web ha dato adito a dubbi sulla sostenibilità a lungo termine di questa serie di attività, come anche sulle modalità attraverso cui bilanciare la diffusione del settore con le preoccupazioni per la sicurezza pubblica in tempi di pandemia.

Un articolo del 2020 del think tank americano Center for Strategic and International Studies (CSIS) si è chiesto se l’”economia delle bancarelle” fosse davvero “capace di salvare l’economia in stallo”, utilizzando un gioco di parole azzeccato tra “stall economy”, appunto economia dei venditori ambulanti, e stalled economy, ovvero economia che non progredisce. Secondo gli autori le nuove norme si sono inserite in una strategia più ampia orientata ai consumi interni e volta a coinvolgere anche le famiglie a basso reddito. In ogni caso, negli ultimi due anni le chiusure a intermittenza previste dalla strategia Zero Covid hanno fatto sì che il supporto alle bancarelle su scala nazionale si affievolisse.

Bancarelle unite contro lo stress da ufficio

La discussione è tornata in auge di recente, dopo che la Cina ha abolito la strategia di contenimento nazionale. La fine delle misure non è coincisa con un miglioramento della situazione occupazionale. Dopo il picco di quasi il 20% registrato ad agosto 2022, il tasso di disoccupazione per la fascia di età tra i 16 e i 24 anni si è mantenuto a un 16,7% lo scorso dicembre, per poi tornare a salire al 18% a febbraio.

Di fronte alla crescente pressione del mercato del lavoro, molti abitanti delle città spesso non più che trentenni sono alla ricerca di un occupazione diversa. Si guarda sempre meno ai lavori un tempo prestigiosi da “colletto bianco”, che sembrano aver perso attrattiva dopo la lunga serie di critiche e denunce contro le pratiche di sfruttamento e lo stress che li caratterizzano. Agli impieghi manuali, invece, con la loro ordinarietà e gli orari prevedibili, si sta guardando con maggiore interesse. Una giovane ha raccontato al New York Times di aver lasciato un impiego da visual designer per lavorare in un negozio di toelettatura, perché con il precedente lavoro le sembrava di “non riuscire a concludere nulla”. Una opinione simile a quella di Xiong, 31enne che al South China Morning Post ha raccontato di aver deciso di vendere giocattoli fatti a mano in una zona centrale di Shanghai dopo aver perso il lavoro: lasciarsi alla spalle un impiego che richiede di timbrare il cartellino e abbracciare questa nuova avventura è significato per il giovane fare esperienza di un “reddito instabile”, ma anche respirare una “maggiore libertà”. Sulla strada, i giovani cinesi sperimentano una vita naïf e un senso di “comunità intima” mai provato prima. Testimonianze che sono state raccolte dall’hashtag #摆摊 (baitan), “aprire una bancarella”, che ha raccolto su Douyin oltre 500 miliardi di visualizzazioni. Molti condividono piani di business e trucchetti del mestiere.

Gli stand nell’epoca post-Covid

All’indomani dell’abolizione della Zero Covid, l’“economia notturna” si è configurata come una attività secondaria o una alternativa all’ufficio, diventando di gran lunga più allettante di come era un decennio fa. I nuovi giovani gestori stanno cambiando il settore abbattendo lo stigma che associa le bancarelle, in particolar modo quelle di cibo, a sporcizia e rifiuti. E sono le stesse autorità locali a promuoverne il potenziale. Di recente Shanghai ha pubblicato un piano dettagliato per consentire ai privati di allestire bancarelle all’aperto in modo “ordinato”, dopo che a inizio anno aveva eliminato il divieto di allestire le bancarelle lungo le strade in nome del decoro. La “Guida per l’ulteriore regolamentazione delle attività delle bancarelle della nuova era” prevede che le autorità dei vari distretti designino aree pubbliche come le zone pedonali e gli spazi esterni ai mercati alimentari per le bancarelle temporanee. Le restrizioni resteranno in vigore nelle zone adiacenti a ospedali, scuole o strade principali. Per gli stand che decidono di aprire, tuttavia, il costo giornaliero è piuttosto oneroso (diverse centinaia di yuan al giorno, secondo quanto riportato dal SCMP). Anche Chonqging e altre città hanno organizzato una serie di attività notturne per stimolare gli stand di cibo.

Secondo alcuni osservatori i cittadini della Repubblica popolare dell’epoca post-Covid sono più consapevoli della sicurezza pubblica e di questioni legate all’igiene. Ma ci si chiede quanto effettivamente le bancarelle siano capaci di stimolare la crescita. “Anche se i mercati di strada non sono qualcosa su cui una città può fare affidamento per la crescita economica, contribuiscono a migliorare il reddito delle persone”, ha detto al South China Morning Post Shi Lei, della School of Economics della Fudan University. “E non comportano alcun onere per il governo”.