“Se state guardando questo video, sono già stata portata via dalla polizia da diverso tempo”. A parlare è Cao Zhixin, 26enne originaria di Changsha, capoluogo dello Hunan, in un filmato diventato virale sui social nelle ultime settimane. Con voce calma e sguardo dritto in camera, la ragazza racconta di essere entrata nel mirino di Pechino per la sua partecipazione alle proteste contro le politiche pandemiche che hanno coinvolto diversi centri urbani in Cina lo scorso novembre. E non è la sola.
Editor alla Beijing University Press, la giovane ha partecipato “con pesantezza nel cuore” insieme a colleghi e amici alla veglia organizzata a Pechino sulle sponde del fiume Liangma il 27 novembre in ricordo delle vittime dell’incendio di Urumqi. Tre giorni dopo, il primo interrogatorio. Poi, a dicembre, gli arresti a catena delle sue compagne con l’accusa di avere “aizzato discussioni e causato disordini”. Nasce qui il video preventivo della ragazza, consegnato a persone fidate con la promessa di condividerlo in caso fosse scomparsa.
Secondo quanto confermato da un’indagine di Npr negli scorsi mesi il governo cinese avrebbe raccolto informazioni sui partecipanti ai vari focolai di protesta che hanno coinvolto tutto il Paese, con fermi non precisati di giovani e studenti delle principali metropoli. Otto gli arresti confermati, di cui uno è proprio quello di Cao. Due i rilasci su cauzione, mentre sugli altri sei ancora nessuna notizia.
“Abbiamo partecipato perché abbiamo il diritto di esprimere le nostre legittime emozioni quando un compatriota muore”, dichiara Cao nel video. “Sul luogo della veglia abbiamo seguito le regole, non abbiamo causato nessun conflitto con la polizia. Perché questa protesta deve costare la vita di noi giovani comuni? Perché possiamo essere portate via così arbitrariamente?”, continua. Anche Human Rights Watch riporta di arresti successivi alle proteste condotti dalla polizia di Pechino e Shanghai. Tra questi c’è il commercialista Li Yuanjing, l’insegnante Zhai Dengrui, la giornalista Li Siqi. Secondo il codice penale cinese rischiano fino a cinque anni.
Da inizio gennaio la Cina ha detto addio alla politica Zero Covid con un cambio di rotta che ha visto l’allentarsi delle misure di contenimento del virus che avevano creato malcontento tra i cittadini. Se su questo fronte i disordini sembrano aver stimolato una reazione in positivo da parte delle autorità, il caso della sparizione di Cao e delle sue compagne sembra mostrare ancora una volta che nella Cina di Xi Jinping l’attivismo sociale non può passare impunito. Specie se è a guida femminile.
Caratteristica fondante delle cosiddette “proteste del foglio bianco” è stata infatti la grande partecipazione di studentesse e giovani lavoratrici, con richiami a un tipo di “femminismo performativo” gradualmente spento e ostacolato dal Partito Comunista Cinese negli ultimi anni. Esemplare è il caso di una manifestante che ha sfilato per le vie di Wuzhen, nello Zhejiang, con il nastro adesivo sulla bocca e un foglio bianco in mano per sfidare la censura. Ai polsi pesanti catene in ricordo del caso della vittima di abusi domestici Xiao Huamei. Così come Cao e le sue colleghe, la prima linea delle proteste adesso sotto osservazione da parte di Pechino è risultata composta prevalentemente di giovani istruite, politicamente attive e coinvolte in gruppi di discussione femminista: categorie su cui il governo cinese sta da tempo stringendo la presa.
È del 2015 ad esempio l’arresto delle “cinque femministe”, le attiviste che avevano organizzato il flashmob contro la violenza sulle donne che ha portato giovani cinesi a sfilare in vestiti da sposa macchiati di sangue. Tre anni dopo, la chiusura della piattaforma Feminist Voices aveva inferto un duro colpo al discorso femminista in Cina, mentre dal 2018 il web della Repubblica Popolare Cinese ha visto la censura di blog di discussione a impronta femminista su Douban (un sito di recensione film con una sezione dedicata alle community) e la rimozione di contenuti relativi al MeToo sugli altri social cinesi.
“Le attiviste femministe di oggi sono solitamente residenti di centri urbani che hanno ricevuto un’educazione all’estero”, spiega a Gariwo Jiang Xinhui, politologa e professoressa presso l’Università di Nanchino. “È una generazione di giovani che tende ad avere un approccio di opposizione verso lo Stato, senza riconoscere i funzionari e le istituzioni che soprattutto a livello locale hanno fatto grandi progressi per i diritti delle donne”.
A livello locale infatti, istituzioni che dietro le quinte lavorano per l’interesse delle donne in Cina esistono da tempo. Una su tutti la All China Women’s Federation, il cui operato ha permesso lo scorso ottobre di approvare l’emendamento della legge anti-violenza in Cina con una chiara definizione di cosa si intende per “molestie sessuali” e del procedimento da seguire per denunciarle. “Questi enti statali non vogliono essere associati a movimenti come il MeToo per non essere accomunati a realtà che il governo cinese definisce come agite da ‘influenze straniere’, ma molto spesso lavorano dall’interno per migliorare le cose”, continua Jiang.
Il caso di Cao Zhixin e delle sue compagne porta alla luce anche un altro aspetto della partecipazione femminile alla vita politica in Cina. Se l’attivismo civico è impossibile, la strada istituzionale è altrettanto complessa da praticare. Almeno ad alti livelli. Nel loro saggio Women’s Work: The Gendered Nature of Appointment in Politics in Subnational China Jiang e le accademiche Sarah Eaton e Genia Kostka sottolineano come le donne di successo nella politica di Partito debbano seguire un tipo di carriera “mascolina” per raggiungere il successo. “Esiste un sistema di quote rosa a livello locale, che è di tipo intersezionale e coinvolge anche donne appartenenti a minoranze etniche”, spiega Jiang. “Ma alle donne vengono assegnati ministeri e incarichi tipicamente ‘femminili’, ovvero quelli legati all’istruzione, alla salute o alla cultura”. Esiste infine un “tetto di vetro” legato all’età e alla pressione sociale che le donne cinesi sentono in merito al loro ruolo nella famiglia. “Diverse donne coinvolte in politica a livello locale rinunciano a una carriera che possa portarle ad alte cariche per timore di perdere la finestra di opportunità del periodo riproduttivo”, continua la professoressa. “La gavetta avviene prima dei 30 anni di età, e per le donne provenienti da realtà rurali è complesso scegliere di intraprendere questa strada. C’è poi un problema legato alla ‘cultura del bere’ di questo tipo di carriera, che tende a escludere le donne. Anche se con la campagna anti-corruzione di Xi Jinping questo aspetto è oggi meno pressante”, conclude.
Lucrezia Goldin
[Pubblicato su Gariwo]Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.