Cina e Taiwan sono da oggi più vicine. Almeno sul piano economico. Merito della firma di un accordo di cooperazione economica che ha segnato il punto più alto delle relazioni tra Pechino e Taipei dal 1949.
Un’intesa “storica”, hanno titolato i media, un successo personale per il presidente cinese, Hu Jintao, che spera così di convincere “la provincia ribelle” dei vantaggi di una riunificazione con la madrepatria. E un successo anche per il suo omologo taiwanese, Ma Ying-jeou, che dopo aver riportato i nazionalisti al governo nel 2008 ha avviato un percorso di riavvicinamento con il governo cinese.
“È un momento decisivo per lo sviluppo di un dialogo a lungo termine”, ha detto Chiang Pin-kung, capo della delegazione di Taipei, “dobbiamo cogliere l’opportunità di lavorare insieme e fidarci reciprocamente”. L’Economic Cooperation Framework Agreement (Ecfa), firmato a Chongqing, prevede che Pechino abbassi le tariffe d’importazione su 539 prodotti taiwanesi. L’isola farà lo stesso verso 267 prodotti cinesi.
L’accordo , prevedono gli economisti, rafforzerà gli scambi commerciali tra le due sponde dello Stretto, già oltre i cento miliardi di dollari l’anno, e aprirà nuove opportunità di lavoro per almeno 260mila taiwanesi. Una manna per l’economia dell’isola basata sulle esportazioni, di cui il 40 per cento diretto proprio in Cina. I nuovi e più stretti legami con il governo cinese spaventano però l’opposizione indipendentista. Domenica il Partito democratico progressista (Dpp) ha portato in piazza migliaia di persone (100mila secondo gli organizzatori) per protestare contro l’accordo e chiedere un referendum per la ratifica. ‘Salviamo Taiwan’.
‘Opponiamoci all’Ecfa’ recitavano i cartelli dei manifestanti. Con loro anche l’ex presidente Lee Teng-hui. L’intesa è arrivata pochi giorni dopo un altro successo politico di Pechino: l’approvazione della riforma elettorale votata il 25 giugno dal Consiglio legislativo (Legco) di Hong Kong.
“Dobbiamo fare attenzione alla strategia del ‘divide et impera’ usata dal governo cinese”, ha ammonito un editoriale del quotidiano taiwanese ‘China Post’. Tre giorni di dibattito hanno spaccato l’opposizione al provvedimento presentato dal governo locale. Il voto di otto deputati del Partito democratico favorevoli alla riforma ha reso irrealizzabile l’obiettivo del suffragio universale per l’elezione dell’assemblea legislativa nel 2012. Ad oggi siedono nel Consiglio 60 delegati, per metà eletta direttamente dal popolo.
L’altra metà è nominata dalle ‘functional costituencies’, le corporazioni professionali che il governo cinese ha deciso di non abolire perché favorevoli alla sua politica. Con la riforma i seggi passeranno a 70, di cui 40 scelti dai cittadini. E fa aumentare il numero degli appartenenti al comitato per eleggere il capo esecutivo di Hong Kong da 800 a 1200. “È una pietra miliare nella nostra democrazia”, ha detto il capo del governo locale, Donald Tsang convinto che la riforma sia la prima vera applicazione della ‘Basic Law’, sorta di costituzione che garantisce agli abitanti dell’ex colonia britannica diritti sconosciuti nel resto della Cina.
Continueremo a lottare per il suffragio universale e per l’abolizione delle corporazioni”, era stato il commento di Albert Ho, presidente del Partito democratico, sotto il fuoco amico dell’ala radicale dell’opposizione. Le contestazioni più accese furono quelle di Leung ‘Lunghi capelli’ Kwok-hung.
L’esponente della Lega dei socialisti democratici definì “senza vergogna” i deputati del Pd schierati per il sì. “Non fanno più parte del campo pan-democratico”, gli ha fatto eco il compagno di partito Wong Yuk-man. Divisioni che si faranno sentire alle prossime elezioni, ipotizza il politologo James Sung Lap-kung, intervistato dal quotidiano online ‘Asia Times’.
“I democratici perderanno i voti dei giovani e dei radicali”, ha detto Sung. Le stessa categorie che giocarono un ruolo decisivo nelle elezioni del 16 maggio quando le consultazioni suppletive per assegnare i seggi lasciati vacanti dalle dimissioni di cinque democratici-radicali, diventarono una sorta di referendum de facto per spingere verso una riforma del sistema elettorale. La rielezioni dei cinque ha avuto soltanto un valore simbolico. Per ora il calendario verso il suffragio universale resta quello deciso da Pechino: non si farà niente prima del 2017.
[Anche su Interprete Internazionale] [Foto: Geoffry/Wiki Commons]