L’Indonesia è un paese di cui si parla poco, ma del quale ci sarebbe tanto da dire. La recente approvazione del nuovo codice penale da parte del parlamento ha acceso i riflettori su Giacarta, dando voce a una serie di preoccupazioni internazionali sul futuro della democrazia indonesiana. Abbiamo discusso di questo e non solo con Antonia Soriente, professoressa di Lingua e Letteratura indonesiana all’Università L’Orientale di Napoli
Né in Africa, né in Medio Oriente o in Asia centrale. Lo Stato a maggioranza musulmana più grande al mondo si trova nel Sud-Est asiatico, e si chiama Indonesia. Un paese di cui si parla poco, ma che per numero di abitanti segue soltanto Cina, India (presto al primo posto) e Stati Uniti. L’immagine che ne si ha – e che Giacarta ha interesse di mostrare – è quella di un paese moderato, storicamente neutrale, internamente “unito nella diversità” come da suo motto. Qui risiede la prima contraddizione di uno Stato nel quale oltre l’85% degli abitanti si riconosce come islamico, ma che è altresì composto da una moltitudine di gruppi etnici e culture diverse. E che per questo rompe il silenzio che lo avvolge, facendo notizia, quando sembra spostarsi verso una linea più conservatrice dal punto di vista religioso.
Dopo decenni di lavoro, a inizio dicembre tutti i partiti del parlamento indonesiano hanno approvato
il nuovo codice penale del paese. Si tratta di una revisione completa di quello precedente che, salvo una serie di modifiche, risaliva al 1918, frutto del periodo coloniale olandese. A causa di alcune delle norme che si prevedeva sarebbero state inserite, per anni le procedure per la riscrittura del testo legislativo hanno attirato critiche interne (come le manifestazioni di protesta del 2019) e internazionali. Alla fine, molti dei timori si sono avverati: alcuni articoli del codice vietano il sesso fuori dal matrimonio, pongono restrizioni all’aborto e criminalizzano l’insulto al presidente o la blasfemia.
Se per gli attivisti per i diritti umani di tratta di “una battuta d’arresto enorme per la democrazia” del paese (e di una vittoria per quelle forze conservatrici che vorrebbero uno Stato fondato sulla sharia), per il vice ministro della Giustizia, Edward Omar Sharif Hiariej, il nuovo codice penale è “in linea con i valori indonesiani”.
Parlare di quali siano questi valori indonesiani, però, non è semplice. E non lo è nonostante l’Indonesia, in quanto Stato, si fondi su un pensiero filosofico ben preciso: la Pancasila. Cinque punti introdotti nel 1945 all’interno della costituzione, di cui il primo è la “fede in un unico Dio”, ma nei quali si legge poi anche di democrazia, giustizia sociale, unità nazionale. Di fatto, furono il risultato di un compromesso tra islamisti e nazionalisti sul quale tuttora si fonda il sistema politico di Giacarta.
Per provare a capire qualcosa in più dell’Indonesia abbiamo parlato con chi ne tratta da decenni. L’università L’Orientale di Napoli ha attivi dal 1964 i corsi sulla lingua e la letteratura indonesiana, “merito della volontà di Alessandro Bausiani, un grande persianista ed esperto di Islam”, ci dice la professoressa Antonia Soriente. Soriente ha vissuto in Indonesia tra gli anni ’90 e i primi 2000, tornando all’Orientale nel 2010. Oggi è lei la docente di Lingua e Letteratura indonesiana, e a dicembre ha organizzato un ciclo di seminari sulla cultura e la letteratura contemporanei del paese insieme a colleghi indonesiani e a un’importante autrice, Ayu Utami.
Quello tra l’Indonesia e L’Orientale è un rapporto ormai storico.
Bausani aveva visto nell’Indonesia e nel mondo malese in generale, dove per mondo malese intendo tutto quel mondo in cui si è diffusa la cultura di natura malese (Indonesia, Malesia, Brunei Darussalam, Singapore e un po’ di Thailandia meridionale), una vastissima area culturale di cui si sa probabilmente troppo poco in Italia, ma che ha grande rilevanza anche dal punto di vista storico. Ancora oggi l’indonesiano è l’unica lingua e cultura del Sud-Est asiatico rappresentata all’Orientale, ma stiamo cercando di estendere le nostre attività anche agli altri paesi della regione, come Vietnam e Filippine.
Dal 5 al 16 dicembre ha organizzato questo ciclo di seminari sull’Indonesia contemporanea. Quali sono stati gli argomenti di dibattito principali?
Organizzo questo tipo di incontri ogni anno, il desiderio è quello di dare agli studenti la possibilità di ampliare la propria visione dell’Asia. Quest’anno abbiamo invitato due studiosi, i professori Robert Sibarani e Manneke Budiman, e Ayu Utami, una grande scrittrice indonesiana. L’idea del seminario era far vedere com’è l’Indonesia dal punto di vista culturale e letterario. Per esempio, Sibarani è un esperto di culture e tradizioni orali Batak. L’Indonesia è un paese molto popoloso e anche molto variegato a livello culturale e linguistico. Quello Batak è uno dei 750 gruppi etnici indonesiani, e Sabarani ci ha parlato della loro cultura soprattutto nella prospettiva contemporanea. Oggi alcune pratiche e danze Batak sono state riviste anche per renderle delle attrazioni turistiche: si tratta di un processo di rivalutazione delle tradizioni locali che avviene un po’ ovunque nel mondo. Accade anche per altri gruppi etnici. L’Indonesia è un paese poco conosciuto per quanto vasto e situato in una zona strategica dell’Asia, oltre che il più grande paese a maggioranza musulmana al mondo, ed è bello che gli studenti possano avere a che fare con queste tradizioni che vengono mantenute nel motto indonesiano di “unità nella diversità”. Poi con Ayu Utami è stata l’occasione per parlare del suo libro [Le donne di Saman], che abbiamo tradotto 12 anni fa. È un testo importantissimo per la letteratura contemporanea.
In quei giorni veniva anche approvato il nuovo codice penale.
Il seminario di Utami capitava proprio il giorno dopo la vicenda, che ha scatenato un dibattito. Lei era la persona appropriata per dare un giudizio ed esprimere una posizione, visto che con il suo libro “Le donne di Saman” ha rotto i ponti col passato indonesiano parlando, da donna, di donne desiderose di mostrare la propria libertà di espressione. Le donne di Saman è nato contro l’autoritarismo dell’Ordine Nuovo di Suharto [dittatore indonesiano dal 1967 al 1998], che si è poi dimesso nel 1998 pressato dalle proteste, ma anche per motivi di ordine geopolitico. Utami ha affrontato il problema del nuovo codice penale in modo molto razionale e possiamo dire “diplomatico”. La notizia dell’approvazione del nuovo testo legislativo ha colpito molto l’immaginario collettivo dei giornalisti occidentali. Ma la legge è un ottimo compromesso per soddisfare le esigenze di una parte del parlamento più conservatore, che voleva che la coabitazione [e il sesso fuori dal matrimonio] fosse un vero e proprio crimine, quando invece così può essere denunciata solo da un parente stretto. È una legge molto blanda. Dato il livello di democratizzazione che l’Indonesia ha raggiunto saremmo stati felici, ha detto Utami, se questa legge non fosse stata creata. Però va anche riconosciuto che quello appena approvato è un codice penale migliore di quello che c’era prima. Gli indonesiani non lo vedono come una grande minaccia. Ho visto commenti come: “è il male minore che ci poteva succedere”. Noi italiani forse dimentichiamo che stiamo parlando di un paese islamico.
Questo nuovo codice penale, però, potrebbe anche essere letto come un primo passo verso un’Indonesia più conservatrice dal punto di vista religioso, e quindi più islamista. Forse non è un bel segnale. Lei cosa ne pensa?
Parlando con amici e colleghi, questa preoccupazione c’è, ma non solo per la legge. La presenza islamica si fa sentire sempre più forte, non si può negare. Siamo in una fase di “post-islamismo”, nella quale si registra la tendenza e la voglia di gruppi di cultura islamica di farsi sentire. Lo si vede anche dal punto di vista letterario: se l’85% della popolazione è musulmana, è chiaro che ci sono tante persone disposte a leggere opere dove l’islam è rappresentato. Direi che c’è più la voglia di far sentire la propria presenza piuttosto che di essere fondamentalisti. E alla fine alle elezioni chi ha la maggioranza sono i nazionalisti. Oggi il presidente Joko “Jokowi” Widodo vuole cercare di mantenere quell’equilibrio necessario a mantenere l’attuale status quo tra gruppi islamici e nazionalisti. È una preoccupazione molto meno forte di quanto sembri. Un qualsiasi indonesiano direbbe che l’Indonesia sta andando nella direzione giusta e che la paura di arrivare a un vero e proprio paese islamico è esagerata, mentre già in Malesia la religione ha un ruolo molto più importante. Ci sono ben altre preoccupazioni, come questo grandissimo sviluppo economico che va sempre a discapito della categorie più deboli.
Nel 2019 c’erano state delle manifestazioni contro gli articoli più estremisti del codice, oggi solo qualche protesta più contenuta. Perché?
Perché le persone sapevano che la legge sarebbe stata approvata, e che è meglio di quella prima in cui un qualsiasi vicino poteva venire a bussarti alla porta per vedere con chi eri a letto. L’ultima lezione del seminario trattava di questi movimenti post-islamici giovanili, che sono meno preoccupanti dell’islamismo vero e proprio perché cercano di essere inclusivi anche delle altre culture, come quella occidentale ma anche quelle provenienti dall’Asia orientale: Cina, Giappone, Corea del Sud. La cultura coreana è diffusissima nel mondo indonesiano, e chi ne usufruisce sono persone islamiche. Non bisogna pensare che comunità che hanno culture diverse dalla nostra non possano coesistere con la democrazia e con valori che sentiamo vicini. Ci sono fenomeni che noi osservatori e studiosi abbiamo difficoltà a comprendere, e che possono sembrare discordanti. Per esempio ogni anno si vedono manifestazioni contro San Valentino, ma poi in tutti i locali ci sono coppie musulmane che lo festeggiano. Bisognerebbe viaggiare un po’ di più e conoscere la realtà culturale degli altri paesi.
Qual è il ruolo della politica in tutto questo? Da fuori, l’Indonesia pare volersi mostrare come un paese moderato, neutrale, che possa fare da mediatore tra vari attori, come ha dimostrato il G20. E internamente?
C’è una ricerca continua volta al mantenimento di un equilibrio tra le parti. Nel 2010 con una legge si è dato molto più spazio alle autonomie locali, che hanno anche ruolo di ridimensionare l’importanza del capo di stato. Ma autonomia che cosa vuol dire? Significa anche affermare certi modelli identitari, a volte estremizzati. Jokowi vuole mantenere questo equilibrio, e lo ha fatto in passato nel tentativo di attirare le masse a sé in vista delle elezioni. Le masse sono fatte di persone islamiche. Giocare su questi modelli, che a noi sembrano contraddittori, è vincente. L’Indonesia è un paese musulmano, e c’è un legame molto forte con la religiosità, ma ci sono persone che prima magari vanno a pregare e dopo vanno al pub. Per me non è una contraddizione, è come chi va in chiesa col proprio compagno o compagna, pur non essendo sposati. Non c’è bianco o nero, serve guardare il contesto. L’Indonesia è stata a lungo un paese induista e buddhista, e l’islam è penetrato anche perché era molto più democratico e dava anche ai poveri la possibilità di essere rappresentati.
Non c’è la paura di un ritorno all’autoritarismo?
Forse un ritorno al modello Suharto farebbe anche piacere a occidente, visto che aveva tarpato le ali a tutti i movimenti islamici. Ho vissuto in Indonesia dagli anni ’90 al 2010 e ho visto il cambiamento. La crescita della presenza dell’elemento islamico nella cultura è tangibile, anche nella moda o nei modelli estetici. Se prima era vietato mettere il velo, adesso per alcune autonomie locali è obbligatorio usarlo. C’è il tentativo di affermare delle esigenze identitarie, ma l’Indonesia è vasta e non ci può essere la paura che si estenda a tutti. Con il professor Budiman ho avuto spesso queste conversazioni, anche per vedere se le preoccupazioni occidentali sono condivise. Non è così, per lui non c’è niente di cui preoccuparsi, è normale che ci siano dei cambiamenti e forse non sarebbe giusto che l’Indonesia diventasse la copia di un paese occidentale. Per gli accademici indonesiani la cosa è esagerata, poi il dibattito esiste e va bene che sia così.
In Indonesia c’è dibattito, ma in Italia? Vede cresciuto l’interesse verso il paese?
Non credo sia aumentato, no. Quella indonesiana non è una cultura che tira come quella cinese, giapponese o coreana tra i giovani, anche se ai ragazzi questo tipo di seminari piacciono, perché si dà la possibilità a un esperto di parlare di temi che io come professoressa non riesco a toccare. L’Indonesia però non ha creato quella cultura pop che la Corea del Sud, per esempio, è riuscita a costruire. Poi in realtà gli stessi indonesiani sono interessantissimi ad andare a concerti di gruppi come BTS e simili, dove masse coi copricapi musulmani si comportano esattamente come i loro coetanei a Milano, Londra o Parigi. L’interesse in generale per il Sud-Est asiatico è ancora limitato, anche se forse nei prossimi anni riusciremo ad aprire dei corsi sulle lingue della regione. Ma si sa troppo poco della cultura indonesiana. In Italia, per esempio, non ci sono studiosi dell’islam indonesiano, e parliamo della nazione a maggioranza musulmana più grande al mondo.
Perché si parla così poco di Indonesia?
L’Indonesia è un paese grande, che si trova in una posizione geopolitica importantissima, e anche dal punto di vista economico non c’è ragione per non parlarne. Il paese forse si è mosso troppo tardi nella promozione del proprio soft power. L’Indonesia non è solo palma da olio, ha una sua varietà e cultura, resto basita dal fatto che per tante persone uno Stato così grande sia solo Bali, per esempio. Se ne parla solamente quando accadono tragedie o questioni controverse. Una volta si parlava spesso del terrorismo. La paura del terrorismo in Indonesia c’è sempre, ma oggi è molto circoscritta. Anzi, una delle cose di cui è accusato Jokowi è che abbia mostrato tendenze autoritarie nella lotta al fenomeno.
Jokowi che vorrebbe trasferire la capitale da Giacarta, che si trova nell’isola di Giava, al Borneo, per costruirne una nuova: Nusantara. Cosa pensano gli indonesiani del progetto?
Si tratta di una zona già indicata a suo tempo da Sukarno [primo presidente indonesiano] e forse è diventato il modo di Jokowi per essere ricordato. È un grande progetto che porterà tanti investimenti, ma sarebbe un cambiamento radicale. All’inizio c’era un po’ di malcontento, ma ora non più. Lo si vede come qualcosa di lontano. Il “centro del mondo” passerà da Giacarta a un’altra zona dell’Indonesia, e alla fine magari sarà una bella capitale. Gli indonesiani sono molto nazionalisti, quindi avere una capitale nuova, bella e moderna gli piacerebbe. C’è sempre da considerare questo mix tra cultura, tradizione e modernità: è una cosa di cui gli indonesiani vanno molto fieri.
A cura di Francesco Mattogno