- Cina-Africa dopo il Congresso
- Hassan alla corte di Xi
- Il modello Lekki
- Torna la pace nel Tigré, non grazie alla Cina
- COP27: la Cina spalleggia l’Africa
- “Siamo disposti ad ascoltare”
Cosa ne sarà della strategia africana nel terzo mandato di Xi? La Cina continuerà a investire nelle infrastrutture del continente? Oppure si concentrerà maggiormente nelle nuove fonti energetiche? Per rispondere a queste e molte altre domande abbiamo provato a leggere le foglie del tè – e i fondi di caffè africano. La COP27, l’accordo di pace in Etiopia, e i negoziati sul debito in Zambia, ci dicono già molto del nuovo corso sino-africano. La quinta puntata della rubrica sui rapporti Cina-Africa a cura di Alessandra Colarizi
Il Congresso del partito comunista è soprattutto una questione di politica interna. Sancisce il ricambio della leadership al potere e fa da sfondo all’annuncio di importanti obiettivi di sviluppo nazionale. Ragione per cui la politica estera riveste normalmente un ruolo marginale. Così è stato anche durante la XX edizione appena conclusa. Questo non significa che quanto concordato durante il Congresso non avrà ripercussioni per le relazioni tra la Cina e il mondo. Per capire in che modo occorrerà attendere la nomina del prossimo ministro degli Esteri e del capo della diplomazia.
Secondo Eric Olander del China-Global South Project, se l’attuale titolare del dicastero Wang Yi – cresciuto professionalmente in Asia – dovesse sostituire Yang Jiechi, diplomatico senior specializzato in American affairs, la Cina potrebbe direzionare il proprio focus sul Sud globale. Al contrario, se l’incarico di ministro passerà nelle mani l’ambasciatore cinese a Washington, Qin Gang, non è escluso verranno privilegiate le turbolente relazioni tra superpotenze.
Un’interpretazione forse un po’ semplicistica che non convince Jevans Nyabiage. Per il reporter keniota del South China Morning Post, di fronte alla crisi del debito – non solo in Africa ma anche in Sri Lanka, Pakistan e Laos – alle accuse di razzismo anti-africano, e ad altre gravi sfide diplomatiche, la Cina non sarà in grado di distogliere l’attenzione dal Sud del mondo. Come riassunto dal direttore della China Foreign Affairs University: “Big powers are the key, China’s periphery is the priority, developing countries are the foundation, and multilateral platforms are the stage”.
D’altronde la storia ci ricorda come in tempi di isolamento internazionale, l’Africa e il Sud globale si siano rivelati una sponda importante per Pechino. Era già successo dopo il massacro di piazza Tian’anmen e ci sono già sufficienti indizi per ritenere sarà così anche oggi che la Cina viene additata come minaccia numero uno dalle potenze occidentali. Se servono prove concrete, basta guardare agli ultimi ospiti internazionali accolti a Pechino: il segretario del Partito comunista vietnamita, Nguyen Phu Trong, il nuovo premier pakistano, Shehbaz Sharif, e la presidente tanzaniana, Samia Suluhu Hassan. Solo in quarta posizione troviamo il Cancelliere Tedesco, Olaf Scholz…
Hassan alla corte di Xi
La visita di Hassan – la prima di un leader africano dall’inizio del terzo mandato Xi Jinping – è piuttosto utile per valutare eventuali cambiamenti nella politica africana di Pechino. Aldilà delle formalità (le relazioni bilaterali sono state elevate a partenariato strategico globale), i numeri hanno ancora la loro importanza: 15 sono gli accordi conclusi. La Cina ha confermato di voler contribuire al rinnovamento (per una cifra non nota) la celeberrima ferrovia Tanzania-Zambia (Tazara), costruita da Mao cinquant’anni fa con il sudore della fronte di oltre 50.000 operai cinesi. E’ stato inoltre approvato un prestito da quasi 57 milioni di dollari per l’ampliamento dell’aeroporto internazionale di Zanzibar. Rispetto agli impegni passati si tratta tuttavia di bruscolini, mentre la “ciccia”, lo sviluppo del porto di Bagamoyo, bloccato dal predecessore di Hassan – il sinoscettico John Magufuli – non compare da nessuna parte. Segno di come l’alto indebitamento dei paesi africani stia spingendo la Cina verso progetti meno spericolati. Piuttosto Xi si è impegnato a “espandere l’importazione di prodotti speciali tanzanesi, supportare le imprese cinesi a investire e avviare attività in Tanzania e fornire assistenza nello sviluppo economico e sociale del paese”.
Il modello Lekki
La stagione delle grandi opere infrastrutturali è probabilmente finita. Quei pochi progetti ancora in cantiere vengono sostenuti attraverso nuove modalità di finanziamento. E’ il caso dello scalo marittimo di Lekki, in Nigeria, uno dei porti più grandi dell’Africa occidentale, completato di recente dalla China Harbor Engineering LFTZ Enterprise. L’accordo prevede un partenariato pubblico-privato (PPP), secondo il quale gli investitori recupereranno i loro soldi dalla gestione dei progetti o dall’addebito di fee, come i pedaggi stradali nel caso di collegamenti terrestri. Ma una rondine non fa primavera, e anche in Nigeria, come in altri stati africani, i capitali cinesi cominciano ad arrivare col contagocce. A metà ottobre il ministro dei trasporti nigeriano Mu’azu Sambo ha affermato che il governo federale ha avviato negoziati con “un nuovo investitore” per realizzare la ferrovia costiera tra Lagos a Calabar, che la China Civil Engineering Construction Corp si era impegnata a costruire nel 2014. I soldi non sono mai arrivati e i cinesi pare che non risponda più nemmeno al telefono.
Torna la pace nel Tigré, non grazie alla Cina
L’Etiopia e i separatisti del Tigrè hanno trovato un accordo per terminare la guerra. E la Cina non c’entra nulla. E’ stato grazie alla mediazione la dell’Unione africana che le parti in conflitto hanno deciso di deporre le armi. Ma come? Non era stata Pechino a promuovere una conferenza di pace per il Corno d’Africa? In effetti sì, ma come detto più volte su queste colonne, l’iniziativa cinese era parsa fin da subito un’operazione politica più che una proposta di peacemaking concreta.
Sul tema si è soffermato recentemente Paul Nantulya dell’Africa Center for Strategic Studies. Secondo l’analista, il fallimento va attribuito al mancato coordinamento con le iniziative di mediazione a guida africana già esistenti, come il Panel of the Wise e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (IGAD). Ma soprattutto Nantulya ritiene che, come in altre circostanze, il fallimento sia da attribuirsi soprattutto all’incapacità di avviare un dialogo con l’opposizione politica e la società civile: anche all’estero Pechino interpreta la sicurezza nazionale nell’ottica del weiwen, ovvero della difesa del regime al potere.
Ciononostante, gli Stati uniti non nascondono una certa apprensione per questo inedito attivismo cinese nel comparto della sicurezza africana. Soprattutto nell’ottica di una possibile cooperazione/competizione con Mosca. “Cina e Russia comprendono molto bene il significato strategico dell’Africa”, avvertiva giorni fa il maggiore generale, Todd Wasmund, comandante della task force per l’Europa meridionale degli Stati Uniti, in Africa, durante una discussione alla conferenza annuale dell’Associazione dell’esercito americano. “Mentre l’esercito si concentra nuovamente sulla Cina – la nostra sfida incalzante – così come sull’acuta minaccia rappresentata dalla Russia, è importante riconoscere che entrambi i paesi sono attivamente in competizione in Africa.”
Siamo davanti a una nuova guerra fredda? La domanda riemerge di tanto in tanto. La risposta di Pechino è ogniqualvolta sempre la stessa: i paesi africani non saranno costretti a “scegliere da che parte stare”. Al di fuori della comunicazione ufficiale, tuttavia, il dibattito è decisamente meno abbottonato. Yao Guimei, direttrice del Center for South African Studies presso l’Accademia cinese delle scienze sociali, importante think tank governativo, ha recentemente pubblicato un editoriale (in inglese e cinese) che analizza il fenomeno della cosiddetta “nuova spartizione africana“. Per Yao, non solo l’Africa è ricca di risorse. È anche da considerarsi un “magazzino di voti alle Nazioni Unite e svolge un ruolo importante nel rimodellare il nuovo equilibrio globale [di potere]”. Molto probabilmente non è l’unica a pensarlo in Cina.
COP27: la Cina spalleggia l’Africa
Mentre in Egitto si è aperta ieri l’attesa COP27, tutti gli occhi sono puntati sulla Cina. Cosa farà il primo emettitore di gas serra al mondo? Verranno ribaditi gli impegni già presi o assisteremo all’annuncio di nuovi ambiziosi obiettivi? L’Africa è tutt’orecchi, non solo perché gioca in casa. Ma anche perché è una delle parti di mondo a subire in maniera più devastante gli effetti del climate change. Come spiega il giornalista del Sole 24 Ore, Alberto Magnani, “le economie africane arrivano al tavolo dei negoziati con rivendicazioni chiare rispetto alle controparti occidentali, sullo sfondo di una contraddizione acuita dalla crisi energetica: i paesi ricchi, responsabili del grosso delle emissioni, chiedono a quelli più poveri di adattarsi ai propri target ambientali e, ora, di assicurare loro ANCHE forniture energetiche che suppliscano al taglio di quelle russe”. Sono recriminazioni molto simili a quelle avanzate dalla Cina che dopo aver fatto per decenni da fabbrica del mondo viene oggi bacchettata se – nonostante i massicci investimenti nelle energie pulite – continua a fare affidamento sul carbone per scongiurare i sempre più frequenti blackout.
Lo scorso mese, facendo seguito agli impegni assunti lo scorso anno durante l’8° FOCAC, il ministero degli Esteri cinese ha annunciato che la Cina porterà avanti la collaborazione nelle rinnovabili con 19 paesi africani. E’ dal 2019 che Xi Jinping va dicendo che la Belt and Road deve diventare verde e sostenibile. Pechino ha persino vietato nuovi investimenti esteri nel carbone. A che punto siamo oggi?
Secondo il SCMP, due banche cinesi sono ancora impegnate nel finanziamento di quattro centrali a carbone in Sudafrica e Zimbabwe. Ergo, la strada è quella giusta ma è ancora lunga, soprattutto se non diventa a doppio senso. Gli esperti concordano infatti nel ritenere che le intenzioni green di Pechino si concretizzeranno solo se i leader locali saranno disposti a collaborare. Uno scoglio difficile da aggirare, considerando che i paesi ricchi di idrocarburi continueranno tendenzialmente a massimizzare le risorse di cui dispongono.
Nella prima metà del 2022 i finanziamenti cinesi nel settore energetico africano sono finiti prevalentemente in progetti che prevedono l’utilizzo di gas naturale. Magnani commenta che “l’Africa subsahariana ha un potenziale sterminato per le rinnovabili. Ma servono capitali e tecnologie per dispiegarlo, senza ri-cadere nell’opzione dei combustibili fossili che avvantaggerebbe – paradossalmente – proprio gli occidentali contestati”.
Tratteggiando una strategia per il futuro, alcuni giorni fa Pechino ha rilasciato una serie di linee guida che prevedono l’avvio di sforzi concertati tra Asean, Unione africana, Lega araba, SCO, e BRICS. Insomma un po’ tutto il Sud globale. Si parla della definizione di standard globali ma anche di investimenti nella ricerca e nella formazione.
“Siamo disposti ad ascoltare”
“Siamo disposti ad ascoltare, siamo disposti a impegnarci e siamo disposti a migliorare”. Per l’ambasciatore cinese in Kenya è questa la disposizione d’animo con cui Pechino si appresta ad affrontare il nodo gordiano del debito africano. Negli ultimi mesi la Cina per la prima volta si è seduta al tavolo negoziale insieme ai membri del Club di Parigi per affrontare il problema delle passività di Zambia, Etiopia e Ciad. Ma, secondo Zhou Pingjia, le “priorità dei nostri partner sono sempre state le nostre priorità”, e la Cina continuerà a trattare prevalentemente su base bilaterale.
Che si sia trattato di un messaggio in codice per Nairobi? Il governo keniota ha chiesto una proroga sulla restituzione di un prestito da 5 miliardi di dollari utilizzato per costruire la controversa ferrovia Mombasa-Nairobi. “E’ impossibile poter pagare quel prestito con le entrate che provengono dalle ferrovie”, ha dichiarato il ministro dei Trasporti keniota, “anche tra 50 anni, non andremo mai in pareggio”. Secondo indiscrezioni del Business Daily (smentite dalle autorità locali), Pechino avrebbe comminato al Kenya una multa da 1,312 miliardi di scellini kenioti (10,8 milioni di dollari) a causa del mancato rimborso degli interessi sui prestiti per l’anno finanziario terminato a giugno.
Intanto il nuovo presidente keniota William Ruto ha mantenuto la promessa. Nella giornata di ieri il ministero dei Trasporti ha divulgato il testo dell’accordo per quattro prestiti concessi dalla Cina. Come fa notare The China-Global South Project non si tratta del contratto vero e proprio. Questo potrebbe spiegare perché non compaiono informazioni sulle garanzie richieste in caso di inadempimento. Secondo quanto disponibile, tasso di interessi e scadenza non sembrano differire dagli standard dei prestiti erogati ad altri paesi. Gli analisti si soffermano però sulla clausola che permette al contractor cinese coinvolto nel progetto di importare attrezzature e materiali tax-free. Condizione che mette chiaramente in svantaggio i fornitori locali. Sulla natura confidenziale degli accordi cinesi si era espresso tempo fa PIIE, segnalando come ci sia stato un peggioramento dal 2014 in poi.
Sarà la Export-Import Bank of China (EximBank) a guidare il team cinese per rinegoziare quasi 6 miliardi di dollari di prestiti che lo Zambia deve ai creditori statali. Lo riporta la Reuters citando in esclusiva il ministero delle Finanze dello Zambia. EximBank, una delle tre policy bank di Pechino, sovrintende ai prestiti infrastrutturali nel quadro della BRI. La Cina è il primo creditore bilaterale dello Zambia, contando per il 75% del totale. Sembra tanto ma…
Secondo il think tank indipendente Development Reimagined, la Cina rappresenta ancora solo l’8,7% di tutto il debito dovuto dai paesi africani. Questo perché anche il debito dovuto al resto del mondo è continuato ad aumentare. Anche le nazioni africane con il più grande volume assoluto di prestiti in sospeso – cioè Angola, Kenya, Etiopia, Camerun e Zambia – devono ancora tutti tranne una (il Camerun) la maggior parte del loro debito a creditori diversi dalla Cina. Non solo…
Secondo una ricerca comparsa sul Journal of Globalization and Development, i prestiti del FMI favoriscono gli alleati geopolitici dei governi occidentali, garantendo loro condizioni di austerità meno dure, mentre agli alleati cinesi vengono imposte condizioni più severe. Per gli autori del report, i paesi che accettano gli accordi proibitivi imposti dall’organizzazione internazionale con sede a Washington avranno meno capacità di rimborsare i prestiti dovuti alla Cina. Questo spiega perché Pechino sia reticente a patteggiare sulla base delle richieste del FMI.
Altre notizie in breve
- La città di Chengdu, nel sud-ovest della Cina, ha aperto questo mese una linea di trasporto Cina-Europa-Africa per trasferire merci in Marocco attraverso il porto tedesco di Amburgo. Si tratta di uno dei vari corridoi intermodali che, intrecciando vie ferroviarie e marittime, permette all’export cinese di raggiungere l’Africa e viceversa. Il protagonismo del Marocco è attribuibile alla collocazione strategica tra Europa, Africa e Medio Oriente. L’affaccio sull’Atlantico e il Mediterraneo ha permesso al paese di aggiudicarsi un ruolo un tempo ricoperto dall’Algeria.
- Huawei costruirà un nuovo sistema di monitoraggio elettronico satellitare lungo 5000 km di confine nigeriano nel tentativo di arginare l’immigrazione illegale e individuare tempestivamente le minacce alla sicurezza nazionale. Il ministro dell’Interno, Rauf Aregbesola, ha dichiarato la scorsa settimana che il governo federale ha assegnato al gigante tecnologico cinese un contratto per la costruzione del nuovo sistema di sorveglianza nella speranza che venga distribuito anche a tutti i principali valichi di frontiera terrestri del paese. Intanto continua l’espansione del colosso di Shenzhen nel 5G africano, soprattutto in Kenya e Sudafrica. L’azienda ha recentemente organizzato a Bangkok (sic.) il primo Africa 5G Summit.
- Per la prima volta, il Somaliland sarà incluso tra i 14 paesi e territori dove verranno spediti i soldati taiwanesi nell’ambito del servizio militare alternativo all’estero. I rapporto tra Hargheisa e Taipei si sono intensificati negli ultimi anni dopo che il pressing cinese ha privato l’isola di tutti i suoi alleati africani, fatta eccezione per eSwatini. Sia il Somaliland che Taiwan non sono riconosciuti dall’Onu.
A cura di Alessandra Colarizi
Per chi volesse una panoramica d’insieme, il 2 settembre è uscito in libreria “Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro” (L’Asino d’Oro, 14,00 euro). Partendo dal racconto dei primi contatti nella storia, il testo cerca di restituire un’immagine a tutto tondo dei rapporti sino-africani, superando la dimensione puramente economica. Mentre la narrazione dei mass media ci bombarda quasi ogni giorno con le statistiche del debito africano e degli investimenti cinesi, “Africa rossa” cerca di riportare al centro della narrazione gli scambi politici e socio-culturali tra i rispettivi popoli.
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.