In Cina fuma circa un quinto della popolazione, che in un anno consuma più o meno la metà delle sigarette vendute in tutto il mondo. Il tasso di fumatori è in leggero calo, soprattutto nelle zone urbane, ma rimane a un livello molto più alto che nel resto del pianeta. È dovuto a fattori culturali ed economici, oltre che alla grande influenza politica dell’azienda monopolista di Stato. “Dialoghi: Confucio e China Files” è una rubrica in collaborazione tra China Files e l’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Milano. Clicca qui per le altre puntate
Quante sono due bilioni e duecentocinquantanove miliardi di sigarette? Quanto spazio occupano, come si smaltiscono? Nel 2022, il fumo di due bilioni e duecentocinquantanove miliardi di sigarette (xiāngyān, 香烟) è finito nei polmoni di circa 300 milioni di fumatori cinesi, che in un anno solare hanno consumato il 46% tutte le sigarette vendute in giro per il pianeta. Mentre nel resto del mondo il tasso di fumatori è diminuito di molto, frutto di una consapevolezza sempre maggiore riguardo i rischi del fumo, in Cina non è calato altrettanto velocemente: se tra il 2005 e il 2022 il numero di chi fa uso di tabacco si fosse abbassato allo stesso livello della media degli altri paesi, oggi in Cina ci sarebbero 80 milioni di dipendenti da nicotina in meno. Lo ha rivelato un’inchiesta del portale di giornalismo investigativo The Examination, pubblicata a settembre del 2023.
Nel 2011 il giornalista Matteo Miavaldi scriveva che fumare (chōuyān, 抽烟) è «un comportamento fortemente radicato nella società cinese, dove il rito della sigaretta accompagna una serie di relazioni sociali tutt’altro che disdicevoli». Regalare stecche di sigarette, ad esempio, è considerato accettabile in una grande varietà di occasioni, compresi i matrimoni. «Quando ho fatto da damigella d’onore [nel 2022] ero incaricata di preparare le sigarette sui vassoi che le altre damigelle dovevano tenere in mano e offrire agli ospiti prima della cena di nozze», ha raccontato una ragazza cinese allo Straits Times.
In Cina si inizia a fumare per fare amicizia, conoscere colleghi, evitare imbarazzi. Si tratta di dinamiche comuni in tutto il mondo, ma nella Repubblica popolare si raggiungono vette di pressione sociale difficili da emulare. Offrire una sigaretta a qualcuno che si è appena conosciuto è la normalità, e c’è chi – forse esagerando – paragona il significato culturale del fumare in Cina a quello del bere vino in Francia. Iperboli a parte, la dipendenza dal tabacco dei cinesi è una cosa seria, e ha radici profonde.
Come raccontato da Sixth Tone, le prime sigarette già rollate arrivarono a Shanghai nel 1888, un paio di decenni prima del tramonto dell’impero Qing. Dai primi del ‘900 la British American Tobacco Company iniziò ad aprire uffici e impianti di produzione nel paese, stabilendosi in particolare a Kunming, nella provincia sudoccidentale dello Yunnan, che sarebbe poi diventato il centro dell’industria del tabacco cinese. Fumare sigarette americane si trasformò presto in uno status symbol per la classe medio-alta cinese, e tra i milioni di fumatori cinesi dell’epoca figurava anche il futuro leader del paese, Mao Zedong.
Una volta istituita la Repubblica popolare, nel 1949, una delle prime direttive di Mao riguarda proprio lo sviluppo dell’industria interna del tabacco: le aziende americane vengono nazionalizzate e il settore diventa una delle principali fonti di entrate del governo centrale e di quelli locali. Mentre nel resto del mondo, a partire dagli anni ’50, iniziano a uscire numerosi studi sui danni provocati dal fumo di sigaretta, in Cina il numero di fumatori aumenta sotto la forte spinta del partito.
Anche il successore di Mao, Deng Xiaoping, è un noto fumatore di sigarette, e nel 1981 istituisce la China National Tobacco Corporation (zhōngguó yāncǎo zǒnggōngsī, 中国烟草总公司), una mega-azienda che ha inglobato al suo interno quasi tutte le società del settore e che oggi controlla il 96% del mercato cinese. Due anni dopo, Deng completa l’opera creando la State Tobacco Monopoly Administration, l’ente regolatore del monopolio del tabacco. «Anche se sulla carta si tratta di due entità distinte», ha scritto The Examination, «l’istituto regolatore del settore del tabacco e l’azienda [monopolista] del tabacco sono la stessa cosa. Condividono la stessa leadership, lo stesso personale e la stessa sede a Pechino». Di fatto, chi vende le sigarette detta anche le regole del mercato.
Nella sua inchiesta, The Examination ha confermato come la China Tobacco sia una delle principali ragioni per cui ancora oggi in Cina si fuma così tanto. Attraverso intense attività di lobbying, l’azienda di Stato ha annullato, ostacolato o ridimensionato ogni iniziativa governativa volta a ridurre il numero di fumatori, cercando di limitare per quanto possibile la presa di coscienza dei cinesi sui rischi legati al fumo. Nel 2003 la Repubblica popolare ha firmato la Convenzione quadro delle Nazioni Unite per il controllo del tabacco, entrata ufficialmente in vigore nel paese nel 2006. Nonostante Pechino si fosse impegnata ad adottare una serie di misure ambiziose, da allora sono stati fatti solo piccoli passi in avanti. Per esempio il prezzo delle sigarette è aumentato, ma quelle cinesi restano comunque tra le meno care del mondo: i pacchi più economici costano 3 yuan, circa 40 centesimi. E se è vero che negli ultimi anni sui pacchetti sono state aggiunte generiche scritte di avvertenza, le immagini non ci sono ancora.
Dopo che nel 2014 la China Tobacco ha affossato anche la bozza di legge nazionale antifumo presentata del Consiglio di Stato, le autorità cinesi hanno cambiato strategia, passando a un approccio locale. Alcuni grandi centri come Pechino, Shanghai e Chongqing hanno cominciato a varare una serie di norme che vietano di fumare negli spazi pubblici e in alcuni edifici residenziali, oltre che nelle scuole e negli ospedali. Le leggi hanno funzionato e si è registrata un’effettiva riduzione del tasso di fumatori urbani, mentre il loro numero resta stabile nelle zone rurali.
Lo stesso presidente Xi Jinping, che ha dichiarato di non toccare una sigaretta da quando aveva 40 anni, ha impedito ai funzionari di partito di fumare in pubblico e proposto un piano d’azione chiamato “Cina in salute 2030”, nel quale si è impegnato a garantire che almeno il 30% della popolazione fosse coperto da leggi antifumo entro il 2022, con l’obiettivo di arrivare all’80% nel 2030. Secondo i dati del 2023, però, la copertura raggiunta finora è solo del 16%.
La Cina non è l’unico paese in cui esiste una forte attività di lobbying da parte dei produttori di tabacco (su cui sono state anche avviate diverse indagini per corruzione). Ma è uno dei pochi per cui l’azienda monopolista di Stato rappresenta una “macchina da soldi” tanto imponente. Solo nel 2022 la China Tobacco ha pagato in tasse al governo centrale l’equivalente di 213 miliardi di dollari: cambiare questo sistema richiederebbe una forte volontà politica e il ripensamento di diversi programmi economici.
Intanto, in Cina fuma circa il 20% della popolazione (in maggioranza uomini) e oltre il 60% di chi ha più di 15 anni è esposto quotidianamente al fumo passivo. Secondo un’indagine in collaborazione tra la Commissione nazionale cinese per la salute pubblica e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), più di un milione di cinesi all’anno muore per malattie legate alla dipendenza da tabacco. Senza contare il danno ambientale causato dai mozziconi, spesso dimenticato. Smaltire due bilioni e duecentocinquantanove miliardi di sigarette all’anno, oltre che costoso, non è poi così semplice.
A cura di Francesco Mattogno