Per l’ennesima volta il presidente americano chiarisce che Taipei è più importante di Kiev per Washington. Sull’intervento militare non sono gaffe, ma alimenta confusione con le sue scelte lessicali. E il passaggio più sensibile è quello sull’indipendenza
Se tre indizi fanno una prova, quattro dovrebbero essere una sentenza. Quelle di Joe Biden sull’impegno a difendere Taiwan (come scritto già qualche mese fa) non sono gaffe, ma messaggi precisi rivolti a Taipei per rassicurazione e soprattutto a Pechino per deterrenza. Domenica sera, durante un’intervista al programma 60 Minutes della Cbs, gli è stato chiesto se gli Usa manderebbero delle truppe a difesa di Taiwan in caso di azione militare di Pechino. E Biden ha risposto: «Sì, se si verificasse un attacco senza precedenti».
FINE DELL’AMBIGUITÀ strategica? Il Taiwan Relations Act del 1979 e le Sei Assicurazioni di Ronald Reagan (che Pechino ritiene in conflitto coi Tre Comunicati Congiunti Usa-Repubblica Popolare) prevede che gli Stati uniti si impegnino a impedire qualsiasi azione unilaterale per modificare lo status quo. Ergo, un’invasione di Pechino o una dichiarazione di indipendenza di Taipei. «L’idea che gli Usa vengano in aiuto di Taiwan in caso di attacco non provocato è in realtà conforme all’ambiguità strategica», sostiene Lev Nachman della National Chengchi University di Taipei. «L’ambiguità strategica significa che a certe condizioni gli Usa difenderebbero Taiwan e in altre non lo farebbero. A essere decisivo è il contesto».
In effetti, già nel 1996 gli Usa intervennero direttamente mandando una nutrita flotta per interrompere il lancio di missili e le manovre militari durante la terza crisi dello Stretto. Ma ci sono motivi per cui Bonnie Glaser, direttrice Asia Program del German Marshall Fund, sostiene che la Casa bianca sia entrata in una «confusione strategica». A partire dalla formula «unprecedented attack» che per diversi esperti doveva essere «unprovoked attack» . Cioè un attacco non provocato da un’azione taiwanese contraria allo status quo. Ecco che allora il passaggio più critico delle dichiarazioni diventa quello sull’indipendenza. Biden ribadisce che gli Usa non hanno cambiato la propria posizione e rispettano la politica dell’unica Cina ma aggiunge: «Taiwan decide da sola della propria indipendenza. Non stiamo incoraggiando la loro indipendenza».
MA UNA EVENTUALE dichiarazione di indipendenza come Repubblica di Taiwan (comunque mai all’ordine del giorno dell’amministrazione di Tsai Ing-wen) sarebbe una mossa che renderebbe un attacco non «unprovoked» e alla quale dovrebbe opporsi la stessa Washington se fosse unilaterale. «Questa ripetuta insistenza sul fatto che la nostra politica non è cambiata, che gli Stati uniti si batteranno per Taiwan e che l’indipendenza dipende da Taiwan, sembra nel migliore dei casi un’incoerenza e nel peggiore un cinico atteggiamento per difendersi dalle critiche dei Repubblicani», attacca John Culver, ex responsabile National Intelligence per l’Asia orientale, con un occhio al Midterm.
Come già accaduto nei tre precedenti, un portavoce della Casa Bianca ha parzialmente corretto il tiro. Ma stavolta non è una smentita, è una rilettura delle parole di Biden: «Lo ha già detto in passato, anche a Tokyo a maggio. Anche in quell’occasione ha chiarito che la nostra politica nei confronti di Taiwan non è cambiata». Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Mao Ning, ha invitato gli Usa a non inviare «segnali sbagliati» a Taiwan: «Siamo disposti a fare del nostro meglio per lottare per una riunificazione pacifica. Allo stesso tempo, non tollereremo alcuna attività volta alla secessione». Il governo di Taipei ha ringraziato Biden (che nei giorni scorsi era stato criticato dai media locali per aver ammorbidito alcune parti del Taiwan Policy Act) per aver «riaffermato l’impegno degli Usa sulla sicurezza».
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.