Pubblichiamo qui la traduzione di uno degli articoli vincitori del China writing contest della testata cinese Sixth Tone, scritto da Alessandro Ceschi, italiano residente a Shanghai. Alessandro fa la conoscenza degli sconosciuti che vivono accanto a lui in un vicolo di Shanghai
“Secondo piano! Scendete a fare il tampone!”
“Che cosa?”
“Scendete a fare il tampone! Mancate solo voi!”
“Va bene! Sono in doccia!”
“Veloci!”
“Va bene! Arrivo!”
Nei miei primi sei mesi in questo vecchio quartiere shanghainese, c’era sempre stata una certa distanza nei rapporti con l’anziana coppia al piano di sotto. L’unica volta che avevamo avuto un vero e proprio scambio era stato in un weekend di fine ottobre. Stavo uscendo di casa e non trovavo le chiavi.
Ho pensato velocemente a quello che avevo in casa: nulla di grande valore. Ho usato una scatola di cartone con dentro qualcosa che avevo comprato su Taobao per tenere la porta aperta, e sono uscito.
Ma il portone della palazzina al piano di sotto rimaneva un problema, perché qualcuno l’avrebbe chiuso mentre ero via. Svegliare la famiglia Yu bussando a notte fonda non mi avrebbe fatto vincere il premio per vicino dell’anno. Decido di passare la notte in giro e di tornare il mattino.
Le vecchie case di Shanghai hanno storicamente una cucina condivisa nel vano scala. Arrivato al portone della palazzina, intravedo dalla finestra il Signor Yu che sta bollendo quattro uova per la colazione. Lui mi riconosce e viene ad aprire. Spiego chi sono e cos’è successo, ma lui è veloce a capire, e mi ripete in inglese l’imprevisto che gli ho appena illustrato in cinese: “You forgot the keys.” Sorrido e lo ringrazio.
Dopo quella domenica, ci sono stati solo cenni con la testa e dei buongiorno di fretta mentre uscivo di casa. Fino a che Shanghai è andata sotto lockdown.
La palazzina numero undici è una vecchia casa shanghainese di tre piani. Gli Yu abitano al piano terra; io e altri due ragazzi siamo al primo piano; e una famiglia di quattro persone vive al terzo. Ogni volta che andiamo a fare il tampone (una ricorrenza quotidiana in tempi di lockdown) aspettiamo fuori dal portone al piano di sotto che tutti e nove i residenti della palazzina siano scesi. Poi procediamo insieme verso il tendone dei paramedici. Sembriamo una scolaresca.
L’avviso che avevamo ricevuto a Puxi, la parte di Shanghai a ovest del Fiume Huangpu, diceva che il lockdown sarebbe durato dall’1 al 4 aprile. Ma arrivati al 5 aprile, il lockdown è andato avanti.
Quel giorno, quando sono sceso a fare il tampone, ho incontrato il Signor Yu. “Oggi è l’ultimo,” ha detto con un sorriso felice. “Se tutto va bene, domani siamo liberi.”
Non mi sembrava credibile. Il lockdown era appena stato prolungato, fino a data da destinarsi. Il Signor Yu non poteva sapere quando sarebbe finito: nessuno lo sapeva. Ma trovavo conforto nel suo spensierato ottimismo, e cercavo di farmi convincere.
Il Signor Yu è nato negli Anni Trenta. Prima della nascita della Cina di Mao nel 1949, il Signor Yu è andato a una scuola media gestita dai francesi a Shanghai. Ha imparato inglese, francese e russo (e si è una volta detto dispiaciuto di non poter conversare con me in italiano). Il nostro quartiere è stato progettato e costruito nel 1929: il Signor Yu qui ci è nato, e ci è rimasto per sempre.
Prima che il Partito Comunista prendesse il potere e dividesse le vecchie case monofamiliari di Shanghai in più unità abitative, tutta la palazzina numero undici apparteneva alla famiglia del Signor Yu. In oltre novant’anni di Storia, il Signor Yu ha visto tutto quello che c’era da vedere, e anche quello che uno preferirebbe evitare. Era possibile che la diffusione di un virus potesse sconvolgere la sua pace interiore? Più ci pensavo, e più comprendevo la calma olimpica scritta sul suo volto.
Con l’inizio del lockdown, le loro abitudini familiari non sono cambiate. Il Signor Yu taglia le verdure a casa; la Signora Yu passa le giornate seduta fuori a chiacchierare con le vicine. È questo il rumore di sottofondo del mio lockdown, passato a lavorare da un terrazzo che si affaccia sulla stradina del quartiere. Le signore parlano un po’ in dialetto shanghainese e un po’ in mandarino, quindi capisco circa metà di quello che dicono.
Siamo pieni di gruppi WeChat per i residenti del quartiere, ma le comunicazioni importanti ci arrivano comunque per voce della Signora Yu. Per sapere quando c’è da scendere a ritirare le verdure del governo o i test rapidi, abbiamo imparato ad affidarci ai suoi energici schiamazzi. Se lo ritiene necessario, la Signora Yu sale direttamente le scale e bussa alla porta vigorosamente.
Affianco al mio appartamento, c’è uno stanzino di pochi metri quadri. Prima del lockdown, ci vivevano tre ragazzi. Dormivano di giorno e lavoravano di notte, unendosi alle truppe di autisti a chiamata che girano con casco e biciclette pieghevoli per andare a prendere clienti alticci fuori da ristoranti e bar karaoke. Parlando mentre eravamo in coda per il tampone, ho scoperto che uno di loro tre era da poco tornato nella sua città natale. Nel frattempo era arrivato Omicron, e lui era rimasto chiuso fuori da Shanghai.
Così, lo stanzino era diventato un po’ più grande per gli inquilini rimasti, che la Signora Yu chiama amabilmente “i due bambini”.
Nei primi dieci giorni di lockdown, i pochi fattorini in giro per la città facevano del loro meglio per riempire le dispense di ventisei milioni di abitanti: farsi consegnare la spesa era diventata un’impresa ardua. I pasti erano regolarmente a base di “quello che è rimasto”. Guardando fra i post dei miei amici su WeChat, ne avevo visto uno scritto da Li Ming, uno dei due inquilini dello stanzino. “Il motivo per cui ero venuto a Shanghai,” scriveva, “era non dover mangiare più instant noodles. Ora, ho quasi finito pure quelli.” Shanghai era come un sogno sfumato.
Quello stanzino non è pensato per cucinare. In tempi normali, i “bambini” ordinavano a domicilio o andavano a mangiare fuori. Durante il lockdown, la Signora Yu si è informata più volte sulla loro alimentazione. Ha detto che avrebbe potuto cucinare per loro le verdure del governo. Ma da quello che ho visto, non hanno mai accettato la sua offerta. Si sono limitati a mangiare le verdure crude dopo averle passate velocemente sotto l’acqua.
A un certo punto, la Signora Yu si è procurata per loro un cuociriso elettrico. Quella sera, con un aspetto un po’ brillo, Li Ming mi ha bussato alla porta per chiedermi dell’olio da cucina. La volta dopo si è presentato con in mano un pacco di riso da cinque chili. Me l’ha passato dicendo solo tre parole: “Regalo del governo.”
Ero nel mezzo di una doccia la mattina in cui la Signora Yu mi ha chiamato a squarciagola dal pianoterra. Mi son vestito in fretta e sono sceso. Non c’era coda per fare il tampone, e i paramedici stavano per andarsene. Chiaramente ero l’ultimo arrivato alla festa.
Tornato alla palazzina numero undici, incrocio il Signor Yu, che sta preparando il pranzo. “Stamattina siamo andati dal dottore,” mi dice, e mi fermo capendo che ha qualcosa da dirmi. “Per questo non vi abbiamo chiamati per il tampone.”
Anche se il suono dei megafoni riempie le stradine di quartiere per quasi tutto il giorno, gli annunci parlano di troppe palazzine, ed è facile perdersi proprio l’annuncio che dovresti sentire. Quindi, alla palazzina numero undici, rispondiamo solo alle convocazioni della Signora Yu e ignoriamo il resto. Ma quella mattina, quando erano iniziati i tamponi la famiglia Yu era all’appuntamento col dottore e io ero rimasto ignaro di tutto.
“Ho dovuto farmi dare una certificazione dal comitato residenziale per poter uscire,” dice il Signor Yu, come se a occupare i suoi pensieri non fosse l’appuntamento dal dottore in sé, ma la burocrazia richiesta per arrivarci. Negli ultimi giorni, ho notato che il Signor Yu ha un aspetto più debole.
“Tutto bene?” Chiedo al Signor Yu, con una pausa che divide la domanda in due parti, come a guadagnare del tempo prima di dover sentire la risposta. “Di salute, dico.”
“Così così,” dice il Signor Yu. Questa volta, il suo tono allegro è in netto contrasto con il significato delle sue parole.
Ora capisco cos’è successo nelle ultime tre settimane: rispondere urlando dalla doccia alla Signora Yu, informarmi sulla salute del Signor Yu dopo il suo appuntamento. Non c’è più distanza. Per la prima volta, ho parlato loro in modo diretto, senza lo sforzo consapevole di voler apparire come il vicino educato del piano di sopra. Quella sensazione che hai a casa, di parlare con i tuoi genitori e di non darci peso, perché sai che ci saranno altri mille motivi di conversazione nei giorni e nei mesi a venire. Ogni dialogo diventa quotidianità, prodotto dell’inerzia, parte della giornata. Diventa vita.
“Li ha presi?” La Signora Yu mi chiede entusiasta. Qualche giorno fa, mi ha dato una bustina di polvere per scarafaggi, anche se non avevamo mai toccato questo argomento in passato, né avevo mai suggerito di avere un problema di scarafaggi a casa.
“Ah,” dico, non capendo, in prima battuta, di che cosa stesse parlando. “Li ha presi, sì!”
“Vedi, questa polvere funziona benissimo,” la Signora Yu dice inorgoglita. “Basta metterne pochissima. Ti dura per anni.”
“È vero,” dico salendo le scale. “Funziona alla grande!”
Varcata la porta di casa, il mio sguardo cade sulla bustina di polvere per scarafaggi: è ferma sul mobile da tre giorni, ancora sigillata.
Alessandro Ceschi