spaghetti

Pillole di Cina – Gli spaghetti dell’archeologo

In Cina, Cultura, Pillole di Cina by Isaia Iannaccone

Di Giulio Aleni e di quel simposio internazionale che tentò di rispondere alla domanda delle domande: chi ha inventato gli spaghetti, i Cinesi o gli Italiani?

Nel 1994, la Fondazione Civiltà Bresciana organizzò un simposio internazionale dedicato a una figura importante nella storia degli scambi culturali e scientifici tra Europa e Cina: il missionario gesuita Giulio Aleni (1582-1649). Furono invitati orientalisti da tutto il mondo, dalla Cina agli Stati Uniti, e dunque anche un manipolo di sinologi italiani fra cui il sottoscritto, e tutti i lavori vennero poi pubblicati in una monografia del prestigioso istituto Monumenta Serica (Monograph Series, 42, 1997), un volumaccione di quasi settecento pagine scritte fitte fitte, dalla copertina di colore verde pisello, che spicca in ogni biblioteca del settore facendone la gioia ancora oggi.

Detto ciò, vi aspetterete che ora io vi parli di Giulio Aleni, personaggio che amo immensamente perché appartiene alla generazione di scienziati gesuiti che assieme a uomini di cultura cinesi crearono un ponte pavimentato di anelito di sapere. E invece no, non ho per ora alcuna intenzione di parlavi del Nostro cui, accennerò qualcosa solo in seguito.  

Se ho evocato quel convegno non è, dunque, per disquisire con la mia modesta Pillola di Aleni – cosa per la quale esistono ben più di quel tomo verde pisello –  ma è perché, fra un argomento serio da fare brillare accademiche iridi e la presentazione puntigliosa di antichi documenti, fra le ammirevolmente dotte discussioni tra chi, per dirla con Needham, riteneva che la presenza in Cina dei gesuiti non fosse stata proprio una benedizione e coloro che, invece, la pensavano esattamente il contrario citando proprio colonne portanti della scienza occidentale preilluministica come Giulio Aleni, fra chi s’infervorava per dimostrare precocità scientifiche cinesi e quelli che, piccati, ribattevano «siamo d’accordo con l’illustre collega ma…», nel convegno, dicevo, un argomento del tutto fuori binario, anodino e inaspettato almeno per me, prese corpo nel pomeriggio del secondo giorno del colloquio: era appena terminato il lauto e succulento pranzo, ben innaffiato (e chi se lo scorda!), e questo nuovo argomento, sorto fra pochi durante il fiero pasto, si estese a macchia d’olio e raffreddò ogni altra diatriba; infine, prese talmente piede che l’ultimo giorno durante la discussione di chiusura si concretizzò in una domanda topica che galvanizzò in particolare me in quanto napoletano che nulla sa di calcio e nulla ne vuole sapere di applaudire miliardari in mutande che corrono dietro a un pallone, ma di pasta mi picco di intendermene: chi ha inventato gli spaghetti, i Cinesi o gli Italiani?

Sapete, ci sono quesiti la ricerca della cui risposta ha sfibrato per sempre eccelsi neuroni e einsteniche sinapsi, domande da cui è dipesa la traiettoria di un razzo spaziale verso un mondo magari abitato da alieni, la riuscita di un vaccino salvifico, una invocata pace o una orribile guerra, e altre che hanno messo infide pulci in orecchie incredule sfasciando rapporti consolidati, per non parlare di quelle che ci fanno quando varchiamo i controlli di frontiere esotiche e che dal tono ci convincono che saremo sbattuti fuori dalla meta agognata, oppure messi in una galera della meta agognata. Ma domande come chi ha inventato gli spaghetti, i Cinesi o gli Italiani?, queste sì che fanno tremare le vene dei polsi…

Non riferirò nei dettagli gli argomenti che furono portati durante il convegno tra chi faceva il tifo per i Cinesi (soprattutto i sinologi cinesi e francesi) e chi per gli Italiani (italiani e americani), e i dubbiosi che imbrogliavano le acque citando non si sa perché anche tè e pudding (i colleghi Inglesi); si veleggiò fra soia e riso, grano tenero e grano duro, acrobati-pastai e pastai veri e propri, e pure i pizzaioli vennero evocati così come personaggi famosi quali Marco Polo, Matteo Ricci e Mao Zedong (ma mai Giulo Aleni) e, diciamola tutta, la discussione fu colta, raffinata, e molto divertente. Alla fine, tarallucci e vino docent, si arrivò a un compromesso che fece andare i più a braccetto alla cena di chiusura del simposio: i Cinesi hanno inventato gli spaghetti, e gli Italiani i bucatini (che furono definiti una finezza tutta italica perché assorbono il massimo del sugo, sia fuori che dentro). E mentre i bucatini assorbivano il sugo, io assorbii il colpo, e per anni ho ripensato a quella salomonica sentenza; vi confesso che il dubbio mi ha arrovellato. Ma poi, circa dieci anni dopo, nel 2005, lessi qualcosa sul quotidiano China Daily  e sulle news dell’agenzia cinese Xin Hua 新华che tagliò la testa al toro, e io, pur contrariato, davanti alla scienza dovetti accettare la dura realtà. Eccola.

Nel 2002, nei pressi della città di Lajia 拉加 nella provincia de Qinghai 青海 , regione situata a nord-est dell’altopiano tibetano, una campagna di scavo portò alla luce una sito risalente a circa 4.000 anni fa (tardo neolitico); in esso, sepolti a circa 3m di profondità furono trovati scheletri e oggetti vari che mostravano  gente in fuga a causa di un antico terremoto che devastò realmente quell’area, seguito da una inondazione del vicino fiume Giallo; del corredo archeologico faceva parte una ciotola di terracotta dalla cui sommità spiccava un cespuglietto di fibre lunghe una cinquantina di centimetri, conservatesi grazie a condizioni fortuite.

I reperti furono portati a Pechino presso l’Istituto di Geologia e Geofisica dell’Accademia delle Scienze, e lì giacquero senza ulteriori indagini. Nel 2004, nell’ambito della ripresa dei lavori di scavo a Lajia, iniziarono gli studi sui campioni di fibre e, sorpresa delle sorprese, esse si dimostrarono qualcosa che assomigliava a spaghetti schiacciati o tagliatelle, e le analisi rivelarono che erano fatte di miglio, privo di glutine, che era, allora, assieme al riso, il maggior prodotto agricolo. Questi spaghetti archeologici ricordano i lamian 拉麺 (semplificato 拉面) tutt’ora molto in voga nella cucina cinese. Per intenderci, i lamian di oggi sono quegli spaghetti che si preparano a mano, spesso in pubblico, a partire da un blocco di pasta che, lavorato freneticamente con le dita, con mosse cinematografiche che impegnano anche il corpo in una sorta di balletto ipnotico, diviene poi una specie di cordame di spaghetti separati e lunghissimi.

All’aggiornamento delle ricerche sul sito di Lajia fu data pubblicità nel 2005, data in cui io ne venni a conoscenza, e successivamente si è poi confermato sia l’uso di macine in pietra per sbriciolare cereali come il miglio (le più antiche in Cina hanno circa ventimila anni e sono state ritrovate nello Shanxi), che il poco impiego del grano che, pur noto, cominciò a essere coltivato a larga scala e inserito a pieno titolo nella panoplia dei commestibili cinesi soltanto dai secoli VII-VIII d.C. (epoca Tang).  

La scoperta di Lajia ha sbaragliato tutte le convinzioni precedenti sia cinesi che italiane. I primi facevano risalire gli spaghetti all’avvento nell’area cinese della cultura islamica (secolo VII), la cui culinaria è ricca di lavorazione di vari tipi di farine; difatti, fino a oggi, i fieri detentori dell’invenzione degli spaghetti erano gli abitanti del Gansu 甘肃 (circa 7% di popolazione musulmana), lungo le Vie della Seta, e la sua capitale politica e amministrativa, Lanzhou 蘭州 (semplificato 兰州 ), è oggi considerata anche la capitale dei lamian. Quanto agli Italiani, datavano l’invenzione degli spaghetti al secolo IX in Sicilia occidentale, sempre in rapporto con l’introduzione della cultura araba; il loro uso sarebbe poi velocemente migrato a nord, e sviluppato a Napoli e poi a Genova.

Per evitare sensi di colpa per avere preferito gli spaghetti a Giulio Aleni, faccio un doveroso ma piccolo passo indietro. Il suo nome in cinese era Ai Rulue 艾儒略, il primo carattere richiama la prima sillaba del cognome italiano, i due successivi costituiscono il nome proprio e la loro pronuncia consecutiva si avvicina al suo nome, Giulio. Egli ha lasciato pregevoli e innovative opere in Cinese di geografia, di geometria, sulla generalità delle scienze occidentali, un trattato su corpo e anima, un dialogo con un letterato cinese per spiegare i fondamenti della religione cristiana, un compendio sull’Occidente sotto forma di domande e risposte, le biografie di Matteo Ricci e di due importanti convertiti cinesi, insomma un vero tentativo di creare dialogo e scambio di conoscenze. Aleni era talmente stimato dai letterati cinesi che lo soprannominarono Confucio d’Occidente (Xi lai Kongzi西来孔子) e alcuni di essi gli dedicarono delle poesie – ben 84 di 71 autori diversi – che furono presentate nel 2007, sempre a Brescia, in un ulteriore simposio. Una di queste poesie, composta da Lin Shifang 林十方 , recita: «Solcando i mari del sud è giunto un uomo dalle virtù superiori / è puro di cuore e abbraccia la Verita Celeste / la sua conoscenza è sempre nuova e le sue elevate parole dolci come ambrosia…» E Wang Yun 王筠: «Mi vergognavo di vivere in un vicolo miserabile / oggi sono felice di avere un vicino tanto virtuoso…»

Ci sarebbe troppo ancora da dire su colui che appartenne a quella che è chiamata Generazione di Giganti, ma mi fermo qui aggiungendo soltanto che Giulio Aleni non si è mai occupato ufficialmente di spaghetti.

Di Isaia Iannaccone*

*Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles.  Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”, 1999; “Pillole di Cina. Un grande Paese a Piccole dosi”, 2022), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015),  “Il dio dell’I-Ching” (2017) , “Il quaderno di Verbiest”. (2019).