Rapporti Cina-Giappone. Sulla copertina del rapporto annuale del Ministero della difesa giapponese del 2021, o terzo anno dell’era Reiwa, si staglia nero il profilo dipinto a china di un guerriero a cavallo con arco. Un’immagine che rievocare il lungo “medioevo” dell’arcipelago, epoca di conflitti brutali tra signori della guerra e incubatore della premodernità e delle trasformazioni della fine del XIX secolo. Ma quanto quest’immagine assertiva rispecchia una percezione di minaccia concreta da parte della Repubblica Popolare Cinese (RPC), diffusa nella popolazione civile? Quanto questo desiderio di rivalsa e di protagonismo internazionale è in realtà solo uno schema elitario, un accesso di hỳbris di stato che ignora, con i suoi piani di semplificazione della complessa realtà che ci circonda?
Sulla copertina del rapporto annuale del Ministero della difesa giapponese del 2021, o terzo anno dell’era Reiwa, si staglia nero il profilo dipinto a china di un guerriero a cavallo (kibamusha 騎馬武者) con arco.1)
Rispetto agli anni precedenti il samurai a cavallo colpisce l’osservatore. La copertina del rapporto del 2020, ad esempio, riportava un profilo in bianco del monte Fuji, simbolo nazionale giapponese, su sfondo rosa pesca, quella del 2019, invece, mostrava la Terra vista dallo spazio su sfondo nero. L’autore della copertina Nishimoto Yuki ha dichiarato in un’intervista di aver voluto rappresentare, con la sua opera, soprattutto tre valori: “giapponesità”, “dinamismo” e “forza”.2) L’immagine del samurai è strettamente legata, almeno secondo una trita e discutibile prospettiva moderna ed eurocentrica, a peculiarità dell’etica e della morale diffuse nel paese del Sol levante.
Nondimeno, l’opera di Nishimoto rimane efficace. Oltre alla coolness del design e del soggetto, il dipinto sulla copertina del Libro bianco della difesa attinge a piene mani dal repertorio della storia nazionale giapponese. In particolare, pare rievocare il lungo “medioevo” dell’arcipelago, epoca di conflitti brutali tra signori della guerra e incubatore della premodernità e delle trasformazioni della fine del XIX secolo. Un periodo segnato anche da scontri epocali con altre potenze regionali.
Ma quanto quest’immagine assertiva rispecchia una percezione di minaccia concreta da parte della Repubblica Popolare Cinese (RPC), diffusa nella popolazione civile? Quanto questo desiderio di rivalsa e di protagonismo internazionale è in realtà solo uno schema elitario, un accesso di hỳbris di stato che ignora, con i suoi piani di semplificazione della complessa realtà che ci circonda?
Fig. 1. Screenshot della copertina del Libro bianco della Difesa (2021).
“Samurai” del nuovo millennio
Tra gli anni Settanta e Ottanta del XIII secolo, ad esempio, il governo militare con sede a Kamakura, nell’est dell’isola principale del Giappone, lo Honshū, dovette fare fronte a due tentativi di invasione portati dalla Cina Yuan, erede di uno degli imperi – quello mongolo – più vasti al mondo. Aiutati dai cosiddetti “venti divini” (kamikaze 神風) e, probabilmente, anche da conflitti interni al fronte avversario, le forze alleate allo shogunato riuscirono a respingere le forze d’invasione difendendo l’autonomia del sistema politico-istituzionale locale (una diarchia imperiale-shogunale) da un più ampio assorbimento nella governance Yuan.3)
Non sarebbe, perciò, così azzardato associare l’immagine del kibamusha proprio a quel decisivo evento storico.
Trasposta ai giorni nostri quell’immagine, pensata a dire dei funzionari del Ministero della Difesa di Tokyo per attrarre un pubblico più giovane, sembra dire che il Giappone è tornato. Ed è pronto a difendersi se attaccato. Oggi, come 700 anni fa.
In questo articolo intendo rispondere alle due domande di ricerca principali esposte in precedenza sottolineando quanto la percezione a livello extra-élite della Cina in Giappone sia stata certamente condizionata da alcuni orientamenti strategici del governo di Tokyo, soprattutto sotto il secondo governo Abe, ma che essa non corrisponda appieno a quella presente ai livelli più alti dello stato. Inoltre, seppure vi siano preoccupazioni riguardo la governance sempre più autocratica del paese, l’esistenza di legami profondi (a livello culturale) con la Cina è innegabile, soprattutto per le generazioni di giapponesi nate a partire dall’immediato dopoguerra.
Secondo un sondaggio annuale curato dall’organizzazione no-profit Genron, che si occupa di promuovere scambi tra RPC e Giappone all’insegna della cosiddetta “diplomazia della società civile” (minkan gaikō 民間外交, in giapponese), quasi il 91 % dei giapponesi avrebbe un’opinione totalmente o parzialmente negativa della Cina. Il dato è impressionante. Confrontando i risultati dell’ultima raccolta dati (pubblicati a ottobre 2021) con quelli del 2006, emerge infatti un incremento di quasi 55 punti percentuali della quota di partecipanti con un’opinione totalmente negativa sulla Cina (34,6% contro 90,9 per cento, in leggero calo rispetto al 91,6 per cento del 2016).4) È interessante notare come l’incremento maggiore ci sia stato tra il 2010, anno della recidiva dello scontro sulle isole Senkaku o Diaoyu, e il 2014, secondo anno in carica per l’esecutivo Abe.
Semplificare e narrare
Nonostante rimanga un interessante osservatorio sui rapporti sinogiapponesi a livello di società civile, dato l’esiguo numero di partecipanti soprattutto se raffrontato al peso demografico dei due paesi (poco più di 2500 persone), il sondaggio Genron non può essere considerato altamente affidabile. Alla luce del ruolo che il turismo globale ha nella definizione di un brand nazionale e, di conseguenza, nella diplomazia culturale, indicatori più utili sono forse le statistiche dell’Associazione delle agenzie turistiche del Giappone (Japan Association of Travel Agents, JATA). Dall’ultimo rapporto pre-pandemia da Covid-19, con dati aggiornati al 2017, la Cina (non includendo Taiwan) risulta la prima destinazione più visitata dai turisti giapponesi in Asia e la seconda più visitata nel mondo, dietro solamente agli Stati Uniti. Secondo i dati JATA, infatti, nell’ultimo anno di rilevazioni 2,6 milioni di giapponesi si sono recati nella RPC per turismo. I dati dell’associazione indicano un calo di circa 200 mila presenze rispetto al 2013 e uno di quasi un milione rispetto al 2007, quando si registrò un record di quasi 4 milioni di presenze.5)
Al netto di un fisiologico calo di presenze turistiche a causa del declino demografico giapponese, non pare esserci stato un drastico crollo, tutt’altro. Come si spiega quindi che nove giapponesi su dieci abbiano un’opinione negativa del vicino asiatico?
Secondo l’interpretazione di alcuni osservatori giapponesi, tra cui Okada Takashi, giornalista ed ex parlamentare del Partito socialista, formazione storicamente vicina al Partito Comunista Cinese, una ragione di ciò sarebbe da rintracciarsi in un clima culturale influenzato da fattori endogeni (deregulation del mercato del lavoro, sclerotizzazione di habitus locali nei settori educativo e professionale, ruolo dei media) ed esterni (crescita economica e “assertività” della RPC sugli scenari regionali).6) Con le riforme del lavoro somministrato e dei contratti di lavoro a tempo determinato dei primi anni 2000, si è venuto a creare un sistema “duale” che vede una netta distinzione tra categorie di lavoratori iper-garantiti e altre “usa e getta”.7)
Nell’interpretazione di Okada, tali frange più vulnerabili della società giapponese avrebbero trovato nella “grande causa nazionale” (kokka no taigi 国家の大義) e nella violenza verbale o fisica nei confronti di “diversi” e “deboli”, una sublimazione della loro incertezza verso il futuro. Oltre all’attivismo da tastiera di stampo razzista e nazionalista della cosiddetta “destra del web” (netouyo ネトウヨ), il movimento contro i diritti dei residenti coreani (zaitokukai) e casi di cronaca come il “massacro di Sagamihara” del 2016 sarebbero segnali di un malessere sistemico.8) Il sistema mediatico giapponese, che nell’ultimo decennio si è speso nel “lodare il Giappone” (nihon home 日本ホメ) e i suoi primati a livello mondiale (come i premi Nobel o gli atleti medagliati alle Olimpiadi estive), ha contribuito a definire un “nazionalismo morbido” (yawarakai nashonarizumu 柔らかいナショナリズム), carico, seppur in misura minore agli esempi citati sopra, di antagonismo e di un senso profondo di insicurezza. La stessa rappresentazione mediatica delle file di turisti cinesi arrivati in Giappone per acquistare beni “made in Japan” è riconducibile a questo nazionalismo “morbido”. Per Okada, questo sarebbe stato l’humus ideale per far attecchire la percezione della Cina come “minaccia” (chūgoku kyōi ron 中国脅威論).9)
La Cina alla TV
I media giapponesi hanno avuto un ruolo fondamentale nell’orientare la percezione della società civile giapponese sulla Cina. Secondo uno studio del 2019, oltre il 95 % dei giapponesi si informa sulla Cina su canali giapponesi.10) La TV, soprattutto, era fonte di informazioni sulla Cina per quasi l’80 % secondo un altro studio del 2013.11)
Quando, a partire dall’inizio degli anni Settanta, Tokyo e Pechino intraprendono il lungo percorso di normalizzazione dei rapporti bilaterali, il pubblico giapponese è uno di quelli esposti prima e più di altri all’apertura della Cina al mondo. Nel settembre del 1972, in occasione della visita di stato del primo ministro Tanaka Kakuei a Pechino si conclude con la firma del comunicato congiunto che apre la strada alla normalizzazione delle relazioni tra i due paesi. Anche grazie alle nuove tecnologie di trasmissione satellitare delle immagini, la tv pubblica giapponese, la NHK, manda in onda oltre trentuno ore di servizi dedicati agli eventi di quei giorni e approfondimenti sullo stato dei rapporti tra RPC e Giappone. Ad aprile dell’anno successivo troupe televisive giapponesi ottengono, dopo un intervallo di otto anni, il permesso di girare immagini in territorio cinese e riprendere la vita quotidiana della popolazione nelle città e nelle aree rurali. Nonostante le divisioni politiche e ideologiche di quegli anni, della Repubblica popolare emerge un ritratto “amichevole e ottimistico”.12)
Il documentario “Silk Road”, prodotto congiuntamente dalla NHK e dalla China Central Television (CCTV) con un contributo giapponese di 3 milioni di dollari, diventa l’emblema dell’età dell’oro delle relazioni sinogiapponesi. Le troupe giapponesi ottengono accesso a regioni inaccessibili fino ad allora (e in parte anche oggi) per riprendere le meraviglie di Dunhuang, Loulan e della catena dei monti Tian Shan tra la provincia del Gansu e la regione autonoma dello Xinjiang. La serie ebbe un notevole successo13) raggiungendo, secondo la stessa NHK, circa il 20 per cento dell’audience televisiva di allora, e aprendo la strada a numerosi sequel e documentari di viaggio in località “misteriose”, “affascinanti” (hikyō 秘境) della Cina, come il Tibet e lo Yunnan.14)
Sono gli anni, questi, in cui lo scrittore Sawaki Kōtarō, autore della serie di libri culto Shin’ya tokkyū (Espresso notturno) e padre del movimento dei backpackers giapponesi, visita Hong Kong, allora unico frammento di “grande Cina” (seppur sotto il dominio britannico) agevolmente accessibile dal Giappone e dove il visto poteva essere rinnovato con facilità. Ne rimane estasiato per la vitalità (“a Hong Kong si dice che ogni giorno sia un festa”) e i contrasti estremi tra i senza tetto con la polmonite che fanno l’elemosina per strada, i giovani che abitano vecchie catapecchie e sognano di andare a lavorare in Giappone e i ricchi avventori stranieri che entrano nelle lobby dei loro alberghi di lusso senza degnare di uno sguardo la realtà che li circonda.15)
La fine dell’“età dell’oro”
L’innamoramento del pubblico giapponese per la Cina si affievolisce con l’inizio degli anni Ottanta. Le cause sono legate certamente a un graduale rallentamento dell’economia nazionale e all’affiorare delle tensioni diplomatiche sui manuali scolastici approvati dal Ministero per l’educazione giapponese “edulcorati” circa i crimini di guerra giapponesi. Alla fine del decennio, le immagini della repressione dei movimenti di Piazza Tian’anmen faranno precipitare il senso di vicinanza alla Cina nella società civile giapponese. Secondo dati pubblicati dal Ministero degli Esteri e riportati da Nagai (2009), nell’89, appena il 51,6 % degli intervistati per un sondaggio sulla diplomazia percepiva positivamente la Cina, contro il 68,5 dell’anno precedente e il 78,6 del 1979. Il senso di sfiducia si diffonde in senso inverso, a partire dalla metà degli anni Novanta, quando si verifica la terza crisi dello stretto di Taiwan. La crisi sembra cogliere impreparati perfino i funzionari del ministero degli Esteri di Tokyo che, però, di lì a poco, iniziano a lavorare per un ulteriore rafforzamento dell’alleanza militare con gli Stati Uniti.16)
All’inizio degli anni 2000, con l’arrivo al governo di Tokyo di Koizumi Jun’ichirō, si raggiunge un punto di rottura. Le visite di questi al contestato santuario Yasukuni scatenano reazioni negative nella popolazione civile cinese che scende in piazza a più riprese tra il 2004 e il 2005, con il placet del partito per manifestare, anche violentemente, contro le politiche dell’antico aggressore. Nel 2005, la NHK produce un reboot di “Silk Road”, anche in vista delle Olimpiadi di Pechino del 2008. Ma le questioni legate al rispetto dei diritti umani nelle regioni di Xinjiang e Tibet, gli scandali alimentari e l’annosa questione dell’inquinamento ambientale contribuiscono ulteriormente a peggiorare l’immagine della Cina nell’arcipelago. I tempi sono cambiati e gli abbracci tra leader cinesi e giapponesi, come quello tra Deng Xiaoping e Fukuda Takeo a Tokyo nel 1978, sembrano sempre meno probabili.
Fig. 2. L’abbraccio tra Deng Xiaoping e Fukuda Takeo (sullo sfondo) durante la visita del leader cinese a Tokyo per la firma del Trattato di Pace e Amicizia, il 31 ottobre 1978. In primo piano, la stretta di mano tra i ministri degli esteri Huang Hua e Sonoda Sunao. Credit: Covell Meyskens, “Everyday Life in Maoist China.”
È in questo frangente storico che si inserisce il quadro di riforme socioeconomiche a cui fa riferimento Okada, un fattore della “costruzione dell’Altro” rispetto alla RPC. Nel 2004, l’esecutivo Koizumi accelera il processo di deregulation dei contratti di lavoro part-time e a tempo determinato – fenomeno iniziato con le prime leggi sul lavoro somministrato (haken 派遣) della fine degli anni Ottanta – allargando la platea di lavoratori non protetti a livello previdenziale al settore manifatturiero (circa un terzo della forza lavoro totale del paese arcipelago).17) Nel 2008, la crisi finanziaria globale si allarga al Giappone, causando il tracollo della produzione manifatturiera e dell’export (con la sola eccezione di componenti e apparecchiature elettroniche)18) e, di conseguenza, dell’impiego di lavoratori “regolari”, a tempo indeterminato, nel settore.
Il volo del falco
Alla luce di quanto illustrato in precedenza, appare qui opportuno rivolgere la nostra attenzione sulla manipolazione della percezione della RPC da parte dell’élite governativa giapponese nell’ultimo decennio. Date le numerose anime che la popolano, mi soffermerò in particolare su una figura chiave che, dall’inizio degli anni Dieci di questo secolo, ha innegabilmente orientato il dibattito politico e contribuito a definire una specifica narrazione sulla Cina a scopi politici, l’ex primo ministro e oggi leader di una delle fazioni più influenti nel Partito liberaldemocratico (Jimintō 自民党), il partito di maggioranza e governo in Giappone, Abe Shinzō.
Durante il suo secondo mandato, le minacce alla sicurezza nazionale reali o costruite retoricamente (come, ad esempio, quella legata alle capacità balistiche della Corea del Nord) e una narrazione politica interna incentrata sulla necessità di rispondere a un ambiente circostante instabile per l’agire di potenze “revisioniste” come la Cina hanno gettato le fondamenta psicologiche della trasformazione della postura di sicurezza del paese-arcipelago promossa, tra gli altri, proprio da Abe, considerato un “falco” anticinese e, ad oggi, il più longevo capo di governo dal dopoguerra.
Parallelamente, tali narrazioni sono servite a mascherare la fatica delle élite governative a scendere a patti con il declino relativo del paese in termini economici e demografici.19)
Negli otto anni del suo secondo esecutivo (2012-2020), infatti, sono state approvate nuove misure che hanno gradualmente modificato la postura strategica di Tokyo sugli scacchieri globali. Da paese pacifista per costituzione, a potenza responsabilmente attiva sugli scenari mondiali, sempre nei limiti consentiti dall’attuale Carta, per contribuire alla sicurezza propria e a quella di alleati e partner. Un concetto, quest’ultimo, da intendersi in senso lato, come sicurezza economica, energetica e alimentare, profondamente interconnessa al mantenimento di uno stato di diritto mondiale che preservi il libero scambio.20)
La Cina preoccupa i leader politici giapponesi, sia di segno riformista sia conservatore, dagli anni Sessanta. I test nucleari cinesi del 1964 e del 1966 spinsero ad esempio il governo di Satō Eisaku, “padre” dei tre principi antinucleari del Giappone, a rinsaldare i rapporti di difesa con Washington e a immaginare, per la prima volta dopo vent’anni dalla fine della guerra, un Giappone in grado di difendersi da sé. Dopo Satō, gli esecutivi conservatori di Tokyo cercarono di dialogare con la Cina fino alla normalizzazione definitiva dei rapporti del 1978. Un anno più tardi, Pechino decise di intervenire militarmente in Vietnam, suscitando ancora una volta la preoccupazione di Tokyo che, d’accordo con Washington decise di investire in un sistema di “sicurezza integrato” (sōgō anzen hoshō 総合安全保障), che riguardasse l’economia (in particolare assicurando approvvigionamenti stabili di materie prime indispensabili ad alimentare il settore produttivo all’indomani di gravi crisi energetiche globali) e, sempre di più, gli investimenti nella spesa militare (pur sotto la soglia “psicologica” dell’1 % del Pil).21)
Tuttavia, la frattura diplomatica apertasi dopo la nazionalizzazione delle isole Senkaku/Diaoyu da parte del governo di Tokyo nel 2012, ha offerto la sponda per un cambio di registro, evidente nell’addendum del 2013 al pamphlet politico di Abe, Utsukushii kuni e (“Per un bel paese”, 2006), intitolato Atarashii kuni e (“Per un paese nuovo”).
Il ritorno della politica della forza
Qui, la Cina viene descritta come pronta ad appropriarsi con la forza delle isole, anche ricorrendo a navi civili, per mettere in minoranza la guardia costiera giapponese e impedire una risposta energica. Una volta preso il controllo delle isole, nel cui fondale si trovano giacimenti di gas naturale, Pechino proporrebbe un compromesso, come una gestione o progetti di sviluppo congiunti, ottenendo, secondo Abe, anche il sostegno internazionale. Per evitare questo scenario che porterebbe il Giappone a cedere parte del suo territorio nazionale, Abe sosteneva la necessità di una soluzione energica, ovvero con un adeguamento del sistema penale (introduzione del reato di invasione in acque territoriali) e con aumento della spesa militare. “Non c’è più tempo per una soluzione diplomatica a questo problema (…) a scanso di ogni equivoco, serve forza fisica” (butsuri teki chikara 物理的力).22)
Nella prima edizione del libro, pubblicata cioè prima del riemergere nel 2010 della contesa sulle isole Senkaku o Diaoyu ma poco dopo le manifestazioni antigiapponesi del 2004 e 2005, la Cina occupa uno spazio considerevole all’interno del programma politico di Abe. Senza mai apertamente definirla una “minaccia”, anzi parlando di essa come un’ “opportunità” (chansu チャンス) come prima di lui aveva fatto anche Koizumi, Abe descriveva i fischi alla nazionale giapponese in due match a Chongqing e a Pechino durante la Coppa d’Asia del 2004 e le violenze delle manifestazioni del 2005, che interessarono anche proprietà e attività economiche giapponesi in Cina, richiamando alla necessità, nonostante tutto, di mantenere rapporti amichevoli con Pechino per costruire un rapporto di reciproco beneficio (gokei kankei 互恵関係).23) All’ostilità cinese, Abe contrapponeva la calma dei giapponesi, frutto della combinazione di moralità innata, confucianesimo, buddhismo, shintō e amore per la natura. “Anche quando sembra emergere un conflitto con un altro paese, i giapponesi tratteranno sempre gentilmente e con sincerità il cittadino di quel paese”.24)
Alla luce di ciò le parole di Abe sull’impossibilità del suo paese di disporre non solo di forze armate in grado di proteggere efficacemente i civili giapponesi impegnati all’estero, ad esempio, per lavoro o volontariato e coinvolti loro malgrado in situazioni di crisi, ma, soprattutto, di tutelare l’intero suolo nazionale efficacemente assumono un significato più chiaro. “Nel caso in cui fosse lanciato un missile verso il Giappone da un paese terzo – scriveva l’ex premier – il compito di colpire la base da cui questo viene sparato e fermare l’attacco prima che ne sia sparato un secondo, toccherebbe agli aerei da guerra statunitensi, non quelli giapponesi”.25) Inoltre, in caso di attacchi contro le forze alleate, “se si verificasse un incidente in acque internazionali ai militari americani inviati in caso di emergenza nei pressi del Giappone e le forze di autodifesa dovessero intervenire in loro soccorso, se queste dovessero essere nuovamente attaccate da parte di forze terze, i militari giapponesi dovrebbero ritirarsi. Questo nonostante i soldati americani siano tenuti a prestare aiuto ai giapponesi”.26) Il nodo, per Abe (e, come detto, per chiunque abbia presieduto il governo di Tokyo negli ultimi tre decenni al di là degli orientamenti politici) erano due: l’articolo 9 della costituzione e l’invisibilità delle Forze di autodifesa nazionale (Japan Self-Defense Forces, di seguito JSDF) nella Carta stessa. Il dettato costituzionale, infatti, oltre a stabilire la rinuncia alla guerra, non riconosce la possibilità di “ingaggio” in qualsiasi tipo di conflitto armato per le JSDF, e, quindi, l’esistenza stessa di una forza armata.
Molto di ciò che Abe aveva scritto nel suo pamphlet del 2006, prima di assumere l’incarico di primo ministro per la prima volta, si è tramutato in proposte e misure politiche messe in atto nel corso del suo secondo mandato. In Japan’s Security Reinassance, del 2017, lo studioso Andrew Oros fa notare come, in effetti, dal 2013 Tokyo abbia stretto numerosi accordi di cooperazione strategica, fornito aiuti militari a partner dell’area ASEAN e aumentato, seppure di poco, la propria spesa militare.27) Questo ha comunque avuto implicazioni di ampio respiro, soprattutto sull’atteggiamento della popolazione civile nei confronti delle misure del governo in campo diplomatico. A parte qualche fiammata nel 2014 e nel 2015, contro alcuni provvedimenti contestati come una legge sui segreti di stato e un pacchetto di leggi mirate a incrementare le possibilità operative delle JSDF sugli scenari internazionali, Oros nota una sempre maggiore “accondiscendenza” politica rispetto a determinate scelte in materia di sicurezza sostenute nell’ultimo decennio dalla maggioranza e dagli esecutivi conservatori, come ad esempio l’utilizzo degli aiuti allo sviluppo a fini militari.28)
Inoltre, a dispetto dell’aggressività della retorica, i risultati sono stati, per certi versi, positivi. Nel 2018, ad esempio, i governi di Tokyo e Pechino hanno celebrato il cinquantenario dalla normalizzazione delle relazioni stringendo accordi di cooperazione economica e infrastrutturale in paesi terzi29) e sull’istituzione di un meccanismo di comunicazione d’emergenza per la prevenzione di eventuali scontri armati in tratti di mare contesi.
Stando ai sondaggi citati all’inizio dell’articolo, tuttavia, la distensione politica tra i due governi non sembra avere avuto effetti di rilievo e, anzi, a distanza di quattro anni da quegli eventi i progressi sembrano pochi.
Conclusioni
Come mostrato fin qui, la retorica della “minaccia cinese” (chūgoku kyōi-ron 中国脅威論) è il frutto di una serie di fattori, tra cui la fine del “miracolo economico giapponese” e l’opportunismo della classe politica e delle élite governative.
L’opinione pubblica appare ancora una volta come attore e vittima del gioco teso all’autoconservazione delle élite in un paese in evidente declino demografico ed economico. La pandemia da Covid-19 e la difficoltà dei singoli stati nazionali a fronteggiarla con strumenti efficaci, hanno, per certi versi, inciso in senso negativo sull’immagine della Cina all’estero e i progressi diplomatici fatti tra Giappone e Cina fino al 2018 sono stati di fatto congelati. L’ultimo sondaggio sulla diplomazia giapponese condotto dal Ministero degli Esteri di Tokyo su un campione di 1865 partecipanti, in linea con i sondaggi indipendenti di Genron, mostra che l’87,4 % dei giapponesi non ha una percezione “positiva” della Cina o si sente, in qualche modo, “affine” (shitashimi o kanjiru 親しみを感じる).30)
Ciò che sfugge in parte a queste semplificazioni è la componente demografica. Il campione è fortemente sbilanciato verso la fascia della popolazione ultrasettantenne (468) e ultrasessantenne (319). Non è un caso che qui si registrino i tassi di “inimicizia” nei confronti della Cina più alti, mentre è nella fascia 18-29, quella meno rappresentata (213) dove, invece, anche probabilmente per una maggiore esposizione per studio o lavoro a studenti e colleghi cinesi immigrati, il sentimento di amicizia sale al 33,4 %. È sempre in questa fascia della popolazione giapponese che, inoltre, si registra un maggiore desiderio di “miglioramento” (hatten 発展) dei rapporti tra Tokyo e Pechino (57,3 %).
Difficile quindi credere che queste stesse persone siano attirate, come auspicato dal governo giapponese, da immagini del proprio paese come quella del “Libro bianco” della Difesa descritta all’inizio di questo articolo.
Nel definire le sue strategie in riferimento alla Cina, tuttavia, il governo giapponese sembra, prevedibilmente, più interessato al breve che al lungo periodo. E si trova così a giostrarsi tra poli opposti in una retorica improntata all’equilibrio e al pragmatismo, che potrebbe però scontrarsi contro cambiamenti imprevisti e repentini dello status quo.
Date l’innegabile ascesa economica cinese e l’oggettiva difficoltà del disaccoppiamento della seconda e terza economia mondiali, integrate ormai dalla fine degli anni Settanta, alla retorica della minaccia si associa quella dell’“opportunità”, legata a una visione manageriale di profitto e competitività per i grandi gruppi industriali e finanziari giapponesi. La convivenza di queste due anime nel dibattito pubblico giapponese è evidente nei casi sopra citati come nella scelta politica del governo di parlare, nei suoi rapporti ufficiali, della Rpc come di una preoccupazione (kenen 懸念) e non di una minaccia.31)
È evidente quindi che la stessa preoccupazione rappresenti un fattore di spinta sufficiente a ricalibrare la politica estera di Tokyo, come successo dal 2013 ad oggi. L’attuale primo ministro giapponese Kishida Fumio, già responsabile degli Esteri sotto Abe, spesso accusato dalla destra del suo partito di essere troppo “morbido” con la Cina, ha creato all’interno del suo esecutivo delle posizioni “orientate”, per così dire, a mettere pressione alla Cina. In particolare, un proprio consigliere speciale (hosakan 補佐官) per la questione dei “diritti umani” nel mondo e un ministro per la sicurezza economica (keizai anzen hoshō 経済安全保障),32) deputata a presiedere una quanto meno ambiziosa, se non irrealistica, strategia di disinvestimento dalla Cina e ricollocazione degli snodi delle catene di fornitura dell’economia giapponese.
Di Marco Zappa per Sinosfere*
*Sinosfere è una rivista che si occupa di cultura cinese, intesa come l’universo molteplice e mutevole delle rappresentazioni che, viaggiando storicamente nel tempo e nello spazio, hanno variamente influenzato i particolari modi di vedere, di parlare e di sentire che informano la vita delle società cinese odierne. Creata da un gruppo di studi di storia e cultura cinese, Sinosfere vuole essere – come meglio si chiarisce in altro luogo – una piattaforma volta a esplorare e una discussione sulle dinamiche socio-culturali cinesi indagando su una logica peculiare che il governano.
↑1 | Bōei hakusho: Nihon no bōei (Reiwa 3 nen ban) [Libro bianco della Difesa: la difesa del Giappone, 3° anno Reiwa] (Tokyo: Bōeishō, 2021). |
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↑2 | Mainichi Shimbun, “bōei hakusho” hyōshi no sumi-e: katsuyaku suru kibamusha, wakamono ni mo kanshin o” [Sumi-e sul Libro bianco della Difesa. Un guerriero a cavallo vincente per attrarre i più giovani]. Mainichi Shimbun, 13 luglio 2021. |
↑3 | Per un agile approfondimento, si rimanda a Kawai Atsushi, “Saved by the Wind? The Mongol Invasion of Japan”, nippon.com, 23 dicembre 2021. |
↑4 | “Chūgoku no nihon ni taisuru inshō: 8 nen buri akka nicchū kyōdō yoron chōsa” [L’immagine del Giappone in Cina ai minimi da otto anni – sondaggio congiunto sull’opinione pubblica sinogiapponese], NHK News Web. 20 ottobre 2021. |
↑5 | Sūji ga gataru ryokōgyō – 2020 [il settore del turismo in cifre – 2020] (Tokyo: JATA, 2020), 28-29. |
↑6 | Circa i fattori endogeni e i paradigmi consolidati nella società giapponese, si rimanda anche a Oguma Eiji, Nihon shakai no shikumi: koyō, kyōiku, fukushi no rekishi shakaigaku [La struttura della società giapponese: sociologia storica del lavoro, dell’educazione e del welfare] (Tokyo: Kōdansha, 2019). |
↑7 | Assman e Maslow, “Dispatched and Displaced: Rethinking Employment and Welfare Protection in Japan”, The Asia-Pacific Journal: Japan Focus, 8, 15, 3, 2010. |
↑8 | Sulla destra digitale e lo sviluppo di movimenti xenofobi e razzisti nel Giappone contemporaneo, si veda Jeffrey Hall, Japan’s Nationalist Right in the Internet Age: Online Media and Grassroots Conservative Activism (London:Routledge 2021), e Naoto Higuchi, “The ‘Pro-Establishment’ Radical Right. Japan’s Nativist Movement Reconsidered”, in Chiavacci, Grano e Obinger (a cura di), Civil Society and the State in Democratic East Asia (Amsterdam: Amsterdam University Press, 2020). Per una ricostruzione dell’omicidio plurimo di Sagamihara, invece, si veda Motoso Rich, “Japan Knife Attack Kills 19 at Center for Disabled” The New York Times, 25 giugno 2016. |
↑9 | Okada, “Abe seiji sasaeru ‘Nihon home’ chūgoku kyōiron to hyōri no kankei” [Le ‘lodi al Giappone’ che sostengono il governo Abe: la tesi della minaccia cinese e i legami apparenti e nascosti], Kaikyō ryōgan, 71, 2016. |
↑10 | Otahara Natsuno, “Naze Nihon no Chūgokukan wa fukanyō nanoka: Asahi Shimbun no shasetsu o bunseki o tōshite” [Perché la percezione giapponese della Cina è negativa? un’analisi attraverso gli editoriali dell’Asahi shimbun]. Seiji gaku kenkyū 61, 2019, 58. |
↑11 | Tarai Kiyoshi, “Media ga tsukuru aitekoku no imēji. nicchū tairitsu issokumen”. [Come i media creano l’immagine di un altro paese: il caso dell’antagonismo sinogiapponese]. CRCC kenkyū kai kōen roku 59-69, 2013, 4. |
↑12 | Nagai Satoru, “Terebi wa chūgoku o dō tsutaete kitaka – NHK no tokushū bangumi o chūshin ni” [Come la televisione ha raccontato la Cina? Un’analisi dei programmi di approfondimento giornalistico della NHK]. Hōsō kenkyū to chōsa, gennaio 2009, 47. |
↑13 | “The series was broadcast in 38 countries in Asia and Europe. Eighteen books published on the making of The Silk Road sold 3 million copies. A 10-volume photo series sold 660,000 copies, and 380,000 videos, too, were sold. Seven million records and CDs of the soundtrack have been sold in Japan and abroad.” in NHK (n.d.), “50 Years of NHK Television – The Silk Road.” |
↑14 | Nagai, 2009, 51-55. |
↑15 | Sawaki Kōtarō, Shin’ya Tokkyū1 – Hon Kon, Makao (Tokyo: Shinchōsha, 1983), 96-102 (ed. digitale). |
↑16 | Si veda a proposito Marco Zappa, Il Giappone nel sistema internazionale (Venezia: Cafoscarina, 2020), 84. |
↑17 | Ministry of Land, Infrastructure, Transport and Tourism of Japan, “Asian Economy and Regional Economy in Japan”, 2004. |
↑18 | Kawai e Takagi, “Why was Japan Hit So Hard by the Global Financial Crisis?” ADBI Working Papern. 153, ottobre 2009. Asian Development Bank Institute, 3 |
↑19 | Oros, Andrew, Japan’s Security Reinassance: New Policies and Politics for the Twenty-First Century (New York: Columbia University Press 2017), 8-10. |
↑20 | A questo riguardo si veda Giulio Pugliese, “The Free and Open Indo-Pacific as a Strategic Narrative”, China-US Focus, 18 febbraio 2019. |
↑21 | Per una panoramica sulla questione, si rimanda a Zappa, 2020, 72-73. |
↑22 | Abe, Utsukushii kuni e – atarashii kuni e (kanzenban) [Per un bel paese – per un paese nuovo (edizione completa)] (Tokyo: Bungei Shunju, 2006, 2013), 248. |
↑23 | Sulle manifestazioni antigiapponesi di questi anni, si vedano Reilly, James, “A Wave to Worry About? Public opinion, foreign policy and China’s anti-Japan protests”, Journal of Contemporary China 23 (86), 2013, 197-215, e Chen Weiss, Jessica, Powerful Patriots Nationalist Protest in China’s Foreign Relations (Oxford: Oxford University Press, 2014). |
↑24 | Abe, 2006, 2013, 158-159 |
↑25 | Abe, 2006, 2013, 134. |
↑26 | Abe, 2006, 2013, 135. |
↑27 | Oros, 2017, 86-89. |
↑28 | Dal 2015, il governo giapponese ha fornito in particolare imbarcazioni per il pattugliamento costiero a Vietnam e Filippine. Più di recente, con l’escalation del conflitto russo-ucraino, Tokyo ha inviato a Kiev forniture protettive (giubbotti antiproiettili e guanti utilizzati dalle JSDF) per l’esercito e le forze di resistenza ucraine. Si veda Kyodo News, “Japan sends bulletproof vests from defense forces to Ukraine”, Kyodo News, 8 marzo 2022. |
↑29 | Questo nonostante il Giappone non abbia mai ufficialmente dichiarato sostegno alla Belt and Road Initiative cinese o sia mai entrato nel consiglio della Asian Infrastructure and Investment Bank, considerata un’entità per certi versi in competizione con la Asian Development Bank, politicamente legata al governo di Tokyo. Si veda, su questo, Cook, Malcolm, “AIIB vs ADB Memberships: Larger and Smaller”, ISEAS Commentary 2019/109, 29 dicembre 2019. |
↑30 | Naikakufu, “Reiwa 2 nendo gaikō ni kansuru yoron chōsa: Nihon to shogaikoku to no kankei – (3) Nihon to chūgoku” [Sondaggio sulla diplomazia 2020 – 3. Giappone e Cina]. |
↑31 | Si veda su questo punto Oren, Eitan e Brummer, Matthew, “How Japan Talks About Security Threats”, The Diplomat, 14 agosto 2020. |
↑32 | Prime Minister of Japan and his Cabinet, “The Cabinet-List of Ministers” e “List of Special Advisors to the Prime Minister”, 10 novembre 2021. |