Nel domani del Giappone ci sarà la pillola abortiva. Sì, nel domani, perché oggi ancora non c’è. A svariati decenni dalla sua legalizzazione in Italia e in decine di paesi, Tokyo compirà questo passo solo entro la fine dell’anno. Eppure, il modo in cui viene introdotto questo diritto che altrove è acquisito da tempo dimostra che le lacune sono ancora parecchie. Secondo quanto riporta la stampa locale, per poter usufruire della pillola abortiva le donne giapponesi avranno bisogno del consenso scritto del partner. La legge giapponese sulla protezione materna del 1948 prevede già, con pochissime eccezioni, l’obbligatorietà del consenso per gli aborti chirurgici. Una clausola ovviamente osteggiata dalle donne, ma che il governo non sembra per ora intenzionato a rimuovere. “In linea di principio riteniamo che il consenso del coniuge sia necessario, anche se l’aborto è indotto da un farmaco orale”, ha dichiarato qualche giorno fa Yasuhiro Hashimoto, un alto funzionario del ministero della Salute, a una commissione parlamentare.
Si tratta però di un grosso ostacolo a ottenere l’aborto chirurgico e può diventarlo anche per ricevere le prescrizione del medico per la pillola. Soprattutto qualora il partner di sesso maschile voglia costringere la donna a portare a termine la gravidanza. “Così si consente una forma di tortura”, ha detto Kumi Tsukahara, fondatrice di Action for Safe Abortion Japan. Non è l’unico aspetto a inquietare. Il farmaco avrà un costo che non lo renderà accessibile a tutti, anzi sarà un diritto per poche. Secondo le indiscrezioni una dose singola potrebbe costare circa 780 dollari. Lo stesso costo di un’operazione chirurgica, senza peraltro la possibilità di ottenere una copertura dal sistema sanitario nazionale.
Il Giappone è uno dei pochi paesi al mondo che richiede il consenso del partner per ottenere un aborto, nonostante i ripetuti richiami in merito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e delle varie associazioni internazionali attive sull’eguaglianza di genere. La norma ha peraltro spesso conseguenze tragiche. L’anno scorso una 21enne è stata arrestata dopo il ritrovamento del corpo del suo neonato in un parco. La ragazza, che ha ottenuto la sospensione della pena detentiva, ha dichiarato al tribunale che non era stata in grado di interrompere la gravidanza legalmente perché non riusciva a ottenere il consenso scritto del padre che non riusciva più a contattare. In diversi casi i medici si sono rifiutati di praticare aborti (che nel 2020 sono stati 145 mila) a donne incinte in seguito a stupri o molestie sessuali, nonostante si tratti di casi in cui il consenso non è necessario per legge.
D’altronde, il Giappone non è esattamente un paese modello per l’eguaglianza di genere e si posiziona al 120esimo posto su 153 paesi nella graduatoria del World Economic Forum. I contraccettivi orali sono stati approvati solo nel 1999, dopo 40 anni di lunga attesa, mentre il Viagra ha ricevuto luce verde in soli sei mesi. Un’indagine del 2021 ha rivelato che il 56,7% delle politiche donne sostiene di aver ricevuto molestie fisiche o virtuali, per esempio sui social, da colleghi o elettori uomini. Gli stipendi sono ancora diseguali: una donna giapponese guadagna in media il 44% di un uomo. Sebbene un maggior numero di donne sia entrato a far parte della forza lavoro, molte rimangono in ruoli part-time, che non consentono loro di accedere ai posti di lavoro più importanti. Molte abbandonano, o sono portate ad abbandonare, la carriera una volta diventate madri. Nel settore privato, il numero di donne manager è salito al 7,8% nel 2019, ma non è ancora vicino all’obiettivo del 30%, che il governo aveva stabilito qualche anno fa e che ha successivamente posticipato al 2030. In politica, le donne rappresentano solo il 9,9% dei legislatori della Camera bassa del Parlamento. Leggi maschiliste appaiono dunque una naturale conseguenza.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su Il Manifesto]
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.