5 anni di carcere per corruzione all’ex leader birmana Aung San Suu Kyi, detenuta in un luogo sconosciuto. Deve affrontare ancora decine di accuse create ad arte dalla giunta golpista
C’è stato un tempo in cui si manifestava in suo sostegno. C’è stato un tempo in cui si facevano dei film su di lei. C’è stato un tempo in cui l’occidente, politica e star system la considerava una paladina. Ieri, però, quando Aung San Suu Kyi ha ricevuto una nuova condanna da un tribunale birmano un po’ tutti hanno appreso la notizia dandola per scontata. La repressione dei Rohingya prima e la guerra in Ucraina poi hanno parzialmente tolto dal piedistallo l’ex leader de facto del Myanmar e fatto cadere nel dimenticatoio quanto sta accadendo nel paese del Sud-Est asiatico, teatro di un golpe militare il 1° febbraio 2021.
DOPO UN RINVIO di due giorni della sentenza, Suu Kyi è stata condannata a cinque anni di carcere per corruzione. L’accusa è quella di aver accettato una tangente in denaro contante e undici chilogrammi in lingotti d’oro per un equivalente di 600 mila dollari da Phyo Mien Thein, ex primo ministro della regione di Yangon. Secondo la difesa del premio Nobel non ci sarebbero prove a sostegno dell’accusa. I legali hanno denunciato il processo come ingiusto e motivato da ragioni politiche. Stessa linea tenuta dall’Unione europea. «Il processo rappresenta un altro passo verso lo smantellamento dello stato di diritto, un’altra grave violazione dei diritti umani in Myanmar e l’ennesima grande battuta d’arresto per la democrazia nel Paese dal colpo di stato militare dell’1 febbraio 2021», ha affermato la portavoce del capo della diplomazia Ue Josep Borrell. «Ribadiamo il nostro appello urgente per il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri politici e di tutti coloro che sono stati arbitrariamente detenuti dopo il colpo di stato», ha insistito. Appare però impossibile che ciò possa avvenire.
AL MOMENTO SUU KYI ha già ricevuto condanne per un totale di 11 anni di carcere, nel corso di un percorso giudiziario definito «giusto» dal governo guidato dal generale golpista Min Aung-Hlaing. A dicembre è stata condannata per aver incitato il dissenso contro l’esercito e per aver violato le regole Covid per aver partecipato a comizi elettorali durante delle restrizioni pandemiche. A gennaio è stata anche dichiarata colpevole di avere radio walkie-talkie di contrabbando in casa sua e di aver violato altre regole Covid. E non è certo finita qui. Suu Kyi deve ancora affrontare altre 10 accuse di corruzione, ognuna delle quali può comportare una pena massima di 15 anni, così come le accuse di frode elettorale e di violazione della legge sui segreti dello stato. Per ora sta scontando la pena ai domiciliari, nel luogo in cui è tenuta segretamente da più di un anno. Le condizioni di salute non sono del tutto chiare, anche perché gli avvocati denunciano difficoltà nel comunicare con la loro assistita. L’intenzione dei militari appare chiara: rimuovere qualsiasi possibilità che Suu Kyi possa avere un ruolo pubblico, ancor prima che politico. Nonostante questo, l’ex consigliera di stato resta un’icona per tanti cittadini birmani. Soprattutto per coloro che continuano a ribellarsi al golpe militare. In poco meno di 14 mesi, secondo i dati dell’Associazione per i prigionieri politici birmana, 1800 persone sarebbero state uccise nella repressione del dissenso condotto dalle autorità. Oltre diecimila persone sono state arrestate. Ma la presa dell’esercito è tutt’altro che stabile e in diverse zone del paese continuano gli scontri armati tra i militari e tanti gruppi armati. Di recente, gli Stati uniti hanno definito «genocidio» la repressione sulla minoranza Rohingya, ma questo non ha portato a svolte interne né internazionali su una situazione che rischia di incancrenirsi.
Di Lorenzo Lamperti
[Pubblicato su il manifesto]Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.