La sistematica prostituzione forzata delle donne in Corea del Sud durante il periodo di egemonia giapponese è una ferita difficile da arginare per l’intera penisola coreana, ma il movimento del Redress movment che prova a chiedere giustizia per gli abusi subiti è ancora vivo
Le violenze sessuali all’interno del contesto bellico non sono di certo una novità storica e rappresentano un’arma tra le più potenti e distruttive che accompagnano i contesti bellici. Sono noti gli stupri di massa perpetrati dall’armata russa nei confronti delle donne tedesche dopo il “trionfo” sovietico alla fine della Seconda Guerra Mondiale, così come la presenza di centri di prostituzione in Vietnam dedicati ai soldati americani. Tuttavia, il caso delle comfort women in Corea del Sud si distingue per vastità e sistematicità. Si tratta di una delle forme di schiavismo sessuale più terribili che l’umanità intera abbia conosciuto. La stima più alta registra circa 200 mila donne, soprattutto coreane e cinesi, ma anche filippine, malesi, thailandesi, costrette a prostituirsi dall’armata giapponese negli anni Trenta del Novecento e durante il Seconda Guerra Mondiale. Si parla di centinaia di migliaia di stupri organizzati e sostenuti dal governo nipponico e che per decenni vennero occultati dalla memoria nazionale e internazionale. Una volta terminato il conflitto, l’esercito giapponese eliminò tutte le prove e i documenti relativi al sistema delle comfort women, gli Stati Uniti e la comunità internazionale furono volutamente negligenti nell’amministrazione della giustizia e anche la Corea del Sud, da dove proveniva la quota più alta di vittime, decise che sarebbe stato meglio non sollevare la questione, almeno fino a quando i rapporti con il Giappone non si fossero normalizzati.
Se ad oggi conosciamo la vicenda delle comfort women, lo dobbiamo all’enorme presa di coraggio delle sopravvissute che decisero di raccontare pubblicamente la loro esperienza di abusi e violenze. La drammatica testimonianza di Kim Hak-sun risalente al 1991 fu la prima di una lunga serie e il vero motore del Redress Movement, un movimento straordinario che si sviluppò in Corea a partire dalla fine degli anni Ottanta e che assunse una maggiore rilevanza dai primi anni Novanta del secolo scorso. L’obiettivo del movimento era ed è quello di ottenere il riconoscimento della questione delle comfort women a livello nazionale e internazionale affinché il governo giapponese riconosca la propria responsabilità morale e giuridica per aver attivamente partecipato alla costruzione e all’organizzazione dei campi militari in cui avvenivano le violenze.
Il movimento viene portato avanti da due organizzazioni principali attive nella penisola coreana: il Consiglio Coreano per la Giustizia – il cui nome completo è Korean Council for the Women Drafted for Military Sexual Slavery by Japan, cambiato nel 2019 in Korean Councill for Justice and Remembrance for the Issue of Military Sexual Slavery by Japan – e la House of Sharing. Il lavoro del Consiglio Coreano e quello delle altre realtà impegnate era quello di portare le testimonianze delle vittime al pubblico, anche e soprattutto negli altri paesi, tra cui Giappone e Stati Uniti. Decine e decine di superstiti hanno iniziato ad accusare pubblicamente l’armata giapponese per averle detenute nei campi militari di prostituzione e per le violenze sessuali subite. La denuncia pubblica e collettiva da parte delle vittime coreane fu un passaggio fondamentale: per decenni, il governo giapponese ha affermato che quella delle comfort women era una questione da gestire privatamente, sostenendo che nessuna vittima avrebbe mai reso pubblica la propria testimonianza. Le storie delle esperienze drammatiche delle superstiti portate al grande pubblico furono un’arma potentissima contro l’omertà giapponese.
Non solo, il lavoro del Redress Movement si concretizzò nell’organizzazione di manifestazioni di fronte all’Ambasciata giapponese di Seul tutti i mercoledì a mezzogiorno, che si tengono ancora oggi, e nell’installazione di statue raffiguranti delle giovani comfort women. Il lavoro del Consiglio Coreano e delle altre organizzazioni ha davvero reso quello delle comfort women una issue degna di rilievo sia su un piano nazionale che internazionale. Sin dagli albori del movimento, la società coreana si mostrò molto sensibile al problema e accolse in maniera compatta e positiva le attività proposte dal Redress Movement.
Al contrario, la società giapponese rimane tutt’ora profondamente divisa. Da una parte, soprattutto a seguito della testimonianza di Kim Hak-sun, molte associazioni, organizzazioni, studiose e studiosi, cittadine e cittadini hanno supportato la causa del Redress Movement, specialmente nei suoi primissimi anni di vita. Dall’altra, però, il governo giapponese e le organizzazioni neo-nazionaliste del paese hanno tentato di sminuire la questione. Uno dei motivi principali per cui è così difficile ottenere un’assunzione di responsabilità da parte del governo e di alcune frange della società giapponese riguarda la definizione stessa di “comfort women”. Il governo attuale ha negato il coinvolgimento dello Stato sostenendo che la maggior parte delle donne coinvolte fossero prostitute offertesi volontarie o vendute dalla propria famiglia di origine, reclamando che avessero incassato ingenti somme di denaro per i servizi sessuali prestati all’armata giapponese. In effetti, molte donne coinvolte vennero reclutate attraverso degli annunci, inconsapevoli però che sarebbero poi state avviate verso una terribile forma di schiavismo sessuale. Le organizzazioni neo-nazionaliste giapponesi rigettano la definizione di schiave sessuali per via dell’esistenza di transizioni di denaro tra le donne e i soldati.
La realtà è che la quasi totalità delle comfort women (a parte rarissime eccezioni) fu rapita dalle proprie case e deportata nei campi di prostituzione forzate quando ancora erano poco più che bambine. Un’analisi del 2021 basata su 103 testimonianze e condotta da Pyong Gap Min, sociologo e direttore del Centro di ricerca per la comunità coreana del Queens College, dimostra che solo otto di loro ricevettero dei pagamenti da parte dell’armata giapponese. In ogni caso, tutte le sopravvissute – o le “salvate”, come direbbe Primo Levi – hanno confermano di essere state sottoposte a violenze sessuali, fisiche e psicologiche quotidiane. Le vittime presentano irreparabili danni fisici e psicologici, tra cui lesioni, malattie veneree, sterilità, disturbo post-traumatico da stress. In questo caso, i racconti delle vittime sono una fonte storica indispensabile per la ricostruzione degli eventi e hanno il potere di confutare la tesi promulgata dal governo giapponese secondo cui il caso delle comfort women non costituisce una forma di schiavismo sessuale e quindi una gravissima violazione del diritto internazionale.
Smontare la credenza che le comfort women fossero prostitute volontarie fu una delle principali battaglie del Redress Movement e viene portata avanti ancora oggi. Il movimento non si è accontentato dei tentativi di risoluzione giapponesi. Sia l’istituzione nel 1995 del fondo Asian Women’s Fund, sia l’accordo tra il governo giapponese e quello coreano del 2015 hanno un limite evidente: entrambi rappresentano la pretesa del Giappone di risolvere la questione su un piano economico, senza mai ammettere in maniera esplicita il coinvolgimento e la complicità del governo. Al momento, l’attività del Redress Movement è ancora necessaria proprio perché manca da parte del governo giapponese l’autentica volontà di riconoscere la propria responsabilità e di chiedere sinceramente scusa alle vittime.
E’ importante ricordare che ad oggi una larga parte della società giapponese sostiene il movimento, nonostante le difficoltà interne date dalla presenza delle organizzazioni neo-nazionaliste. In Giappone, ci sono circa 650 mila persone di origine coreana, che da sempre percepiscono una forte appartenenza al Redress Movement e che hanno dato vita a molteplici associazioni e centri di ricerca a sostegno del movimento. In ultima analisi, il Redress Movement è stato un movimento unico ed eccezionale perché ha dato rilievo e importanza a livello internazionale alla questione degli stupri di guerra, ignorata e insabbiata dagli Stati. La strada verso una risoluzione definitiva e soddisfacente è ancora lunga, ma il movimento continua a essere vivo e animato da una nuova generazione di donne e uomini che ancora partecipano alle manifestazioni del mercoledì di fronte all’ambasciata giapponese di Seul, coltivando la memoria di una delle pagine più tristi della storia coreana.
Di Silvia Protino*
*membro di SIR, associazione studentesca dell’Università degli Studi di Milano