Finale alternativo in Cina per il film cult di David Fincher. I media occidentali gridano alla censura. Gli utenti cinesi sono divisi tra chi non comprende il gesto e chi è preoccupato per il futuro della memoria cinematografica nell’internet dai contenuti armonizzati di Xi Jinping.
Prima regola del Fight Club: non parlare del finale di Fight Club. O quantomeno non senza avere ristabilito ordine e sicurezza prima dei titoli di coda. A più di vent’anni dalla sua uscita, il film cult di David Fincher con protagonisti Edward Norton e Brad Pitt è tornato sotto i riflettori dopo essere comparso nel catalogo della piattaforma di streaming cinese Tencent Video in una versione editata, senza il finale sovversivo dell’originale. Variazione che non è stata gradita dai fan cinesi e che ha acceso un dibattitto online sulla manipolazione cinematografica e sul futuro della memoria collettiva nello spazio digitale della Repubblica Popolare.
Anarchico. Anti establishment. Il finale della pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk vede il protagonista uccidere il suo alter ego immaginario Tyler Durden, per poi osservare in silenzio, mano nella mano con l’amante Marla Singer (Helena Bonham Carter), una schiera di grattacieli che esplode. Il Project Mayhem era avviato. Il fallimento del capitalismo e della società dei consumi lasciava spazio alla rivoluzione. Where is my mind dei Pixies in sottofondo.
Nel finale cinese, invece, niente bombe e rivoluzione troncata sul nascere. Dopo l’uccisione di Tyler Durden, una schermata nera e un messaggio: “Grazie agli indizi forniti da Tyler, la polizia ha prontamente intuito il piano e arrestato tutti i criminali, riuscendo a prevenire lo scoppio della bomba”. Nella rivisitazione cinese, l’ordine è ristabilito e le autorità prevalgono sui delinquenti. “Dopo il processo, Tyler è stato mandato in un manicomio dove ha ricevuto trattamenti psicologici. È stato dimesso dall’ospedale nel 2012”, conclude il testo in coda.
Confusi e interdetti, gli spettatori cinesi si sono sfogati sul web e negli scorsi giorni l’hashtag#FightClub (boji julebu, 搏击俱乐) ha raggiunto 106mila visualizzazioni su Weibo. A turbare gli utenti non è stato solo il brusco taglio del film, che risulta 12 minuti più breve dell’originale, ma la radicale alterazione della trama e il tentativo raffazzonato di proporre un finale alternativo. “Sono senza parole”, dice un utente. “Non ha senso guardare questo film senza quella scena” gli fa eco un altro. Oltre a chi si è dispiaciuto ritenendo la conclusione originale della pellicola più “ricca di significato” e “romantica” nella sua composizione, c’è chi ha puntato il dito contro Tencent dichiarando che “nessuno vuole pagare per vedere un classico che è stato rovinato in questo modo”.
Un classico che, come spesso accade in Cina, non è mai stato ufficialmente distribuito nelle sale della Rpc, ma che ha comunque raggiunto gli schermi di milioni di cinesi tramite copie pirata. Il film era stato trasmesso solamente due volte, in occasione del Festival internazionale del film di Shanghai del 2006 e del 2017. Oggi, su Douban, Fight Club ha un punteggio medio di 9/10 e conta 740mila recensioni. Non stupisce dunque che i millennials cinesi cresciuti a pane e CD craccati abbiano reagito con tale fervore. Ma non tutti hanno condiviso questa indignazione. Su Weibo sono stati molti i commenti che hanno espresso disinteresse per il final cut alternativo e che hanno manifestato un generale disprezzo per i film occidentali, considerati “di cattivo gusto” e “non necessari” per il mercato cinematografico cinese, ormai sempre più votato alla produzione locale. “Tra cinque anni vedremo solo film cinesi, non parleremo di queste cose” commenta un utente. “In futuro non verranno ammessi registi stranieri in Cina”, concorda un secondo.
La decisione del cambio di scena non è stata per il momento ricondotta a nessun ente governativo, né alla piattaforma di streaming. Secondo fonti interpellate da Vice tuttavia, a vendere a Tencent il film già alterato sarebbe stata la Pacific Audio&Video Corporation. Un’ azienda partecipata del governo e dunque incline a proporre prodotti in linea con i “contenuti socialisti” e la diffusione dell’”energia positiva” online professata dal presidente Xi Jinping nell’ambito della campagna di rettificazione del digitale.
Questa volta però, produttori e piattaforme potrebbero aver tirato troppo la corda. Gli utenti dell’internet della Rpc sono abituati all’editing strategico di film e serie tv provenienti dall’estero, così come al controllo e alla rimozione di contenuti online. Solo due giorni fa, per esempio, la Cyberspace Administration of China ha annunciato la consueta pulizia annuale di internet in vista del capodanno cinese (e delle Olimpiadi invernali di Pechino) per creare un ambiente digitale “armonioso e festivo”. La censura, non è un concetto estraneo ai netizens cinesi. A irritare gli utenti è stata invece la reinterpretazione del finale, unita alla preoccupazione che gli utenti più giovani non potranno conoscere la versione originale. O peggio, che non se ne interessino affatto. “Quando un film o una forma d’arte viene tagliata o le è modificato il finale, non è più arte, ma è ridotta a un carapace nel quale viene inserito a forza un certo sistema di valori”, scrive a proposito un utente. “L’orgoglio culturale e il politically correct hanno rovinato tutto. Io ho esaurito le forze, ma trovo che sia una vergogna”, prosegue un altro commento. Insieme a chi si indigna, anche tanta confusione. “Non capisco”, recita il commento più letto su Douban, “L’esplosione non dovrebbe simboleggiare il fallimento del consumismo americano? E indicare che il capitalismo divora le persone e le rende pazze? Questo non dovrebbe dimostrare la nostra superiorità?”.
Tra i commenti più decisi, c’è poi chi parla di una vera e propria “correzione della memoria collettiva” e denuncia la “morte dell’arte letteraria e creativa”. Una tendenza, quella della rivisitazione della memoria cinematografica, sulla quale si sono concentrati gli scambi più intensi su Weibo. “
Di cosa vi stupite?” scrive un utente, “Si possono tranquillamente alterare le informazioni su una persona su Baidu, figuriamoci un film. Ma l’internet resta un mondo parallelo e tutti hanno ricordi differenti”. “È una cosa che vediamo spesso nei nostri cinema”, conferma un altro netizen, portando a esempio film come Lord of War e Le ali della libertà (il primo vede un finale alternativo con l’arresto del trafficante di armi interpretato da Nicolas Cage, mentre il secondo è stato censurato a seguito della controversia del fuggitivo cinese Chen Guangcheng). “Ma l’internet ha memoria”, conclude. Non tutti sono d’accordo. Le future generazioni, fanno notare alcuni, potrebbero conoscere solo la versione modificata del film, cementificando quella rivisitazione della memoria cinematografica orchestrata a tavolino per onorare la retorica della “civiltà digitale” di Xi. Ma come ben riassume uno dei commenti con più like sulla piattaforma di microblogging: “Si dice che l’internet abbia memoria, che l’internet non dimentica, ma se chi abbiamo attorno punta il dito e dice che Andy di Shawshank Redemption è stato ricatturato, che in Fight Club non è esploso niente, che Nicolas Cage è stato arrestato alla fine del film, la nostra memoria, esiste davvero?”.
Mentre i media occidentali parlano della “censura di Pechino” e su Twitter Edward Snowden ha lanciato il trend #ChinaEditChallenge per ironizzare sull’accaduto, il dibattito nato attorno al finale di Fight Club sui social cinesi dimostra ancora una volta che gli utenti dell’internet della Rpc sono attenti a quanto traspare nella loro sempre più controllata sfera digitale e sono preoccupati per il progressivo ridursi di questo spazio di espressione. Resta da chiedersi se il chiodo fisso della sicurezza nazionale a tutti i costi, anche a proposito dei film stranieri, e la massiccia campagna di rettificazione dei contenuti online diventerà uno spartiacque tra gli utenti di oggi e le generazioni future. Tra chi ricorda che non esiste nessun Tyler Durden, e chi lo cerca al manicomio.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.