Cina 2022. Il presidente cinese si appresta a ottenere il terzo mandato al XX congresso. Dal passato arrivano sfide e moniti per il futuro
Il 2022 sarà l’anno cinese della tigre e a gestirlo sarà il «serpente» Xi Jinping; il leader cinese si appresta a governare per un terzo mandato, evento eccezionale, per dare continuità a un percorso iniziato nel 2013 con la sua nomina a presidente della Repubblica popolare. Allora, pochi mesi dopo la sua investitura, l’Economist mise Xi Jinping in copertina, vestito come l’imperatore Qianlong (ritratto dall’italiano Giuseppe Castiglione). Si trattava di un accostamento che quasi dieci anni dopo si è rivelato sensato: Qianlong (1711-1799) fu uno dei più grandi imperatori della storia cinese, benché a capo della dinastia Qing che di fatto invase il grande Stato Ming, cioè quella che all’epoca era la Cina.
A POSTERIORI, DI QIANLONG si è sottolineata la responsabilità di avere dato vita a un impero multietnico capace di attraversare un’epoca a tal punto pacificata da produrre un aumento clamoroso della popolazione cinese (nel 1800 era di circa 500 milioni di persone) che si rivelerà poi un problema per l’amministrazione dei Qing.
In generale fu proprio l’epopea dei mancesi – con il suo trittico di imperatori Kangxi, Yongzheng e Qianlong – a rappresentare un interessante parallelo con la Cina di Xi Jinping, in primo luogo come monito: la grandezza dell’impero di quel periodo, riconosciuto in tutto il mondo come un regno unitario e di grande valore politico, amministrativo e culturale, sarebbe da lì a poco caduta sotto i colpi delle potenze straniere, in primo luogo quella inglese, dando il via al «secolo delle umiliazioni».
Quando Qianlong dopo oltre cinquant’anni di regno (ma il nonno Kangxi fece meglio, governò 61 anni), morì lasciando al figlio le redini dell’Impero, mai così ampio (era il doppio del territorio governato dalla precedente dinastia dei Qing) e mai così florido, nelle periferie del regno la corruzione dei funzionari, le prepotenze dei signori locali e il continuo ribollire di rivolte, aprivano ferite che sarebbero state a breve inondate di oppio.
LA DINASTIA QING si svenò economicamente per reprimere le ribellioni interne e quelle etniche: Tibet, Xinjiang, Zungari, Mongoli, impiegando quasi un secolo a terminare la conquista del territorio cinese. E tra gli allargamenti territoriali, oltre a Tibet e Xinjiang, c’era anche Taiwan. Xi può essere accostato alla florida dinastia Qing in quanto ha preso il potere nel momento di massima ascesa economica della Cina: se Qianlong ne duplicò il territorio, Xi Jinping ha proiettato la Cina all’esterno con la Nuova via della Seta. Analogamente Qianlong rispedì al mittente l’ambasciata britannica di Macartney, scrivendo chiaro e tondo che la Cina non aveva bisogno «dei prodotti inglesi».
LA CINA, SPECIFICÒ l’imperatore, non ha bisogno di niente; un’autosufficienza che oggi è diventata un marchio di fabbrica di Xi, specie nel campo tecnologico. C’è però una grande differenza «esterna» tra quel periodo della dinastia Qing e la Cina attuale: l’Inghilterra umiliata e limitata a Canton sul finire del ‘700 sarebbe da lì a poco diventa un Impero a sua volta e la sua capacità navale abbreviò il tempo e lo spazio; la Cina decadeva, l’Inghilterra assurgeva al ruolo di definitiva potenza mondiale.
Xi Jinping, oggi, vive una situazione differente: la Cina torna a essere un paese centrale e in grado di intervenire sull’agenda mondiale, gli Usa sono invece in una fase nella quale Washington cerca di mantenere un’egemonia che le crisi economiche, i fallimenti in politica estera e le difficoltà del proprio sistema democratico sembrano aver messo ormai a rischio.
MA DAL PUNTO DI VISTA della gestione interna tra i governanti Qing e il Pcc di Xi Jinping ci sono parecchie assonanze (che peraltro riverberano anche in altri periodi storici, a segnare alcune caratteristiche tipiche degli ordinamenti dinastici cinesi e dei suoi problemi). Come detto Qianlong si trovò ad amministrare un periodo di grande prosperità: i cinesi nel XVII secolo consumavano mediamente 2mila calorie al giorno (quante ne consumeranno gli inglesi nel secolo successivo), l’aspettativa di vita era salita a oltre 40 anni. Qianlong ereditò inoltre la riduzione delle tasse agrarie effettuate da Kangxi che ne proibì per sempre l’aumento.
PER FARE FRONTE ALL’AUMENTO di popolazione si cercarono nuovi terreni da coltivare (così come Xi ha cercato nuovi mercati), mentre Qianlong procedeva con la gestione interna: intanto epurò tutte le fazioni in lotta tra loro che avevano caratterizzato il periodo di regno del padre, poi cominciò una campagna anti corruzione volta ad assicurarsi la lealtà dei funzionari più periferici che l’imperatore controllò attraverso le innovazioni del nonno e del padre: le istanze private con l’Imperatore, i messaggi segreti diretti (senza passare di mano in mano) e l’utilizzo di una sorta di «Gran Consiglio».
Tutto questo finiva per rendere ancora più autocratico lo Stato. La campagna anti corruzione, i tentativi di aprire nuovi mercati, la necessità di controllare al meglio i funzionari, costituiscono qualcosa di riscontrabile anche nella leadership di Xi. Non solo, perché Qianlong passa alla storia anche come grande amante delle lettere (nonché delle opere d’arte che collezionava): è sua la più estesa collana libraria di tutti i tempi, dove sono schedate oltre 11mila opere. Solo che, come registra Kai Vogelsang, «come ogni canonizzazione essa servì a delimitare il dibattito»: il progetto «definì un corpus di opere esemplari, escludendo gran parte della letteratura»; vennero censurate le opere che esaltavano i Ming e criticavano i Qing, per un totale di circa 3mila titoli eliminati dalla storia.
ANCHE LA GESTIONE INTERNA del paese, a un certo punto, può essere considerata un monito per Xi: all’aumento smisurato della popolazione non corrispose quello dei terreni e ben presto le casse dello Stato finirono per essere sperperate dalla corruzione di corte, con il risultato che anche i posti di funzionario rimasero sempre gli stessi nonostante un aumento esponenziale dei candidati.
Disoccupazione, giovani senza prospettive, contadini senza terra per creare un proprio nucleo familiare, scontento, rivolte, gli «incidenti di massa» di allora, insieme a una flotta debole e perfino capace di soccombere dagli attacchi dei pirati (come quelli capitanati da Shi Yang) aprirono il fianco alla conquista occidentale di un paese che fino ad allora era apparso invincibile. Come oggi, questi eventi avvennero mentre cambiava la percezione della Cina: da Stato modello a infida e immorale potenza.
ALLA VIGILIA della prima guerra dell’oppio, complice anche l’ingresso in Cina di esploratori e avventurieri (all’epoca era vietato ai cinesi insegnare la lingua, ma molti stranieri ovviarono grazie ai missionari europei), i resoconti dal paese divennero diversi da quelli precedenti prodotti dalle ambasciate giunte fino a Pechino: la Cina diventò così uno stato chiuso, quasi xenofobo, totalmente autocentrato e uso ad abitudini scellerate, moralmente in decadimento e con l’oppio a stordire gente comune e guida politica del paese.
IN POCHE PAROLE UN PAESE da raddrizzare attraverso i cannoni occidentali e poi da rieducare. Senza avere la temibile flotta inglese dell’epoca di fronte a Canton, Xi Jinping si trova a confrontarsi con una situazione simile, nella quale l’immagine della Cina sembra irrimediabilmente dipinta in toni oscuri dalla stampa nostrana. Con questo spirito, e queste lezioni storiche, Xi si prepara ad affrontare un 2022 pieno di insidie. Ma Pechino quest’anno proverà ad addomesticare la tigre per lo più internamente: l’appuntamento dell’anno è infatti il XX congresso del Partito.
Cosa uscirà, cosa accadrà a ridosso dell’evento politico è impossibile da dirsi oggi, ma di sicuro il congresso avallerà il progetto di Xi che mira a una Cina sempre più forte al proprio interno e in grado di confrontarsi, anche in modo brusco, sugli scenari internazionali. Ci sono alcune questioni che dovremo verificare e che ci racconteranno che strada prenderà la Cina. In questi giorni Mimesis ha ripubblicato un libro fondamentale per chiunque si approcci allo studio del paese, ovvero Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi. L’evoluzione della Cina di Xi dovrà consegnarci un paese nel quale il «modello cinese» dovrà a suo modo progredire sulla strada dell’autonomia, scendendo a patti con dinamiche sociali che determineranno il grado ancora esistente o meno di socialismo e capitalismo al suo interno.
A questo proposito le sfide sociali sembrano le più interessanti: la tassa sulla casa, la riforma delle pensioni, ad esempio. Ma per capire davvero il segno di quella che sarà la Cina del futuro (tra scontri con piattaforme, evoluzione tecnologica, sovranità digitale) ci pare di poter essere d’accordo con quanto scrive David Harvey nel suo ultimo libro, Cronache anticapitaliste (Feltrinelli, 2021): «A cosa serve l’Intelligenza artificiale? – si chiede l’autore – È la ricerca di un modo per eliminare il lavoro dal processo di produzione e questa credo sia la grande domanda: che cosa succederà al lavoro? La risposta a questa domanda ci dirà in che misure il Partito comunista cinese crede davvero nel socialismo».
Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.