«Tora! Tora! Tora!». Il Comandante della marina imperiale giapponese Mitsuo Fuchida, l’unico autorizzato a usare la radio, festeggia il successo dell’operazione attuata in assenza di una dichiarazione di guerra: i caccia giapponesi affondano il cuore della flotta statunitense ancorata a Pearl Harbor la domenica mattina del 7 dicembre 1941. Per 90 minuti, nell’arcipelago delle Hawaii si scatena l’inferno. «Incursione aerea su Pearl Harbor. Non è un’esercitazione!», lancia l’allarme il capitano Logan Ramsey. Impossibile resistere: gli Usa si fanno trovare impreparati.
IL BOLLETTINO di guerra è tragico: 2403 statunitensi, tra civili e militari, perdono la vita. 19 navi e 188 aerei distrutti. I giapponesi invece perdono 29 aerei e 64 uomini. Numeri ragionevoli per l’impero nipponico, soprattutto se paragonati alla minaccia della perdita del controllo sulla Manciuria e sulla Corea.
Dopo l’attacco, l’imperatore Hirohito visita il controverso santuario shintoista Yasukuni di Tokyo per commemorare i soldati giapponesi che sono morti combattendo al servizio dell’impero nipponico. E lo fa per circa dieci volte dopo la seconda guerra mondiale, nonostante le rimostranze della Corea del Sud e della Cina. Il tempio, costruito nel 1869 dall’imperatore Meiji, attira le ire dei vicini asiatici perché rappresenta lo spirito belligerante e colonialista del Giappone che ha coinvolto, direttamente, Pechino e Seul.
È infatti difficile sorvolare sui nomi contenuti nel libro delle anime presente nel santuario: in una lunga lista di circa 2 milioni e mezzo di militari caduti durante i conflitti condotti dal Giappone dal 1853, ci sono i nomi di circa mille persone considerate «criminali di guerra». Tra questi, figurano anche 14 persone classificate come criminali di Classe A, cioè ritenuti responsabili di aver commesso crimini contro la pace.
Ma l’imperatore Hirohito ha interrotto le visite ufficiali al santuario quando si iniziò a commemorare i criminali di guerra giustiziati al termine del secondo conflitto mondiale. Tra questi, figura anche Hideki Tojo, l’ex primo ministro giapponese dal 1941 al 1944, condannato a morte per crimini di guerra e giustiziato nel 1948.
ALLORA COME OGGI, ogni visita di un esponente politico giapponese a Yasukuni fa storcere il naso a Pechino e Seul, perché considerata come un segno di mancanza di rimorso per le azioni di guerra commesse dall’impero giapponese, prima dell’adozione della costituzione pacifista per volontà degli Usa al termine della seconda guerra mondiale.
Ieri, in occasione dell’80esimo anniversario dall’attacco di Pearl Harbor, un gruppo di circa cento parlamentari giapponesi ha fatto visita al controverso santuario di Tokyo, scatenando le proteste di Cina e Corea del Sud. Nel folto gruppo di visitatori, c’erano anche nove vice ministri e assistenti speciali del gabinetto del premier conservatore nipponico Fumio Kishida. Il primo ministro giapponese non si è unito alla visita, per evitare di farsi travolgere dall’ondata di critiche che aveva colpito l’ex premier Shinzo Abe nel 2013.
IN QUESTA PARATA di spirito patriottico e religioso, i dignitari si sono uniti in preghiera per chiedere una protezione per il Giappone dalla pandemia di Covid-19. Come prevedibile, Pechino e Seul hanno condannato il gesto dei membri del Partito Liberaldemocratico, che guida l’esecutivo nipponico.
La Cina si è affidata al portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, per etichettare la visita dei parlamentari a Yasukuni come «una provocazione», che dimostra come il Giappone non nutra ripensamenti sulla brutalità perpetrata durante il periodo coloniale. Sulla stessa linea il ministero degli Esteri di Seul, che ha espresso profonda preoccupazione e rammarico per la visita a un santuario che «onora l’aggressione del Giappone». Seul ha inoltre invitato Tokyo a provare un sincero rimorso sul suo passato per riconquistare la fiducia della comunità internazionale.
A distanza di 80 anni, Tokyo ha ancora difficoltà a fare i conti con il proprio passato. E non manca di suscitare le ire dei vicini di casa.
Di Serena Console
Sanseverese, classe 1989. Giornalista e videomaker. Si è laureata in Lingua e Cultura orientale (cinese e giapponese) all’Orientale di Napoli e poi si è avvicinata al giornalismo. Attualmente collabora con diverse testate italiane.