La sfida diplomatica Pechino/Taipei tra Isole Salomone, Honduras e Isole Marshall. Il Summit for Democracy di Biden. Il Giappone si schiera. I primi effetti di blacklist e sanzioni di Pechino e i ponti del Fujian. Il caso lituano e i movimenti europei. Semiconduttori e tensioni Tsmc-Intel. La rassegna settimanale di notizie da Taipei e dintorni a cura di Lorenzo Lamperti
Che cosa accomuna le Isole Salomone e l’Honduras? Apparentemente nulla. Uno è un arcipelago di circa mille isole nell’oceano Pacifico meridionale, l’altro è un paese che si affaccia sul mar dei Caraibi e che pochi anni fa ha raggiunto il poco invidiabile primato del record mondiale di omicidi. Eppure, qualcosa che li unisce, in particolare in questi ultimi periodi esiste. Vale a dire i rispettivi rapporti con Pechino e Taipei.
Lunedì 6 dicembre è in programma al parlamento di Honiara, la capitale delle Isole Salomone, un voto di fiducia sul governo di Sogavare. In caso di estromissione dal governo dell’attuale primo ministro, potrebbe esserci un nuovo ribaltone diplomatico, con la rottura dei rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e il ristabilimento di quelli con la Repubblica di Cina, Taiwan. Richiesta avanzata dalla provincia di Malaita, i cui abitanti hanno cinto d’assedio la capitale per diversi giorni con vaste proteste. In una decina di giorni i manifestanti, in gran parte provenienti dalla vicina isola di Malaita, hanno cercato di assediare la residenza personale del primo ministro Manasseh Sogavare, dando fuoco a un edificio limitrofo. Diversi negozi della capitale sono stati distrutti ed è stato preso d’assalto anche il parlamento. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni, arresti e spari. Quello che è certo è che le autorità hanno imposto un coprifuoco a tempo indefinito tra le sette di sera e le sei del mattino. L’Australia ha inviato delle forze di sicurezza, alle quali si sono aggregati anche quelle di alcuni stati dell’Oceania tra cui Isole Figi e Papua Nuova Guinea.
Il caos di queste settimane è stato messo in relazione alla Cina, anche perché i manifestanti hanno colpito anche la Chinatown di Honiara, come già avevano fatto nel 2006 quando si era sparsa la voce di interferenze cinesi sulle elezioni. Da anni le Isole Salomone sono entrate nell’orbita di Pechino. Nel 2017 un progetto di cavi sottomarini è stato interrotto dall’intervento dell’Australia, che si è sobbarcata le spese di un progetto alternativo pur di rallentare l’avanzata cinese nel Pacifico meridionale, sua tradizionale area d’influenza. Ma il rapporto era avviato, e nel 2019 Honiara ha stabilito relazioni diplomatiche ufficiali con Pechino, rompendo quelle con Taipei. Una scelta arrivata in concomitanza delle elezioni del 2019, vinte dal partito di Sogavare, e che è stata imitata poche settimane dopo da un altro paese dell’area, Kiribati. La decisione non è mai stata accettata da Malaita, la provincia più popolosa dell’arcipelago, che intrattiene rapporti privilegiati con gli Stati Uniti, che forniscono aiuti economici diretti all’amministrazione locale. Non è un caso che durante la pandemia Malaita abbia ricevuto mascherine e altri aiuti sanitari da Taiwan, tra le proteste del governo centrale e di Pechino. Sogavare, al potere a più riprese dal 2000, resiste alle richieste di dimissioni e sostiene che dietro la rivolta ci siano “interferenze straniere”. Versione a cui sembra credere anche Pechino. Condannando le violenze e chiedendo la tutela della sicurezza dei cittadini e delle imprese cinesi, il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha detto che “tutti i tentativi di interrompere il normale sviluppo delle relazioni tra Cina e Isole Salomone sono futili”. In realtà il menù della rivolta va ben al di là dell’ingrediente cinese. La tensione atavica tra l’isola della capitale e quella di Malaita deriva da motivazioni etniche, spesso sfociate in scontri armati come negli anni che hanno preceduto una missione di pace australiana che si è protratta tra il 2003 e il 2017. Di base, resta il malcontento di Malaita sulla suddivisione delle risorse economiche da parte del governo centrale. Dal 2020 la provincia spinge per un referendum di indipendenza, respinto dall’esecutivo. A tutto questo si aggiunge il tema geopolitico, che non è causa ma sintomo delle divisioni interne.
Domenica 28 novembre si sono invece svolte le elezioni generali in Honduras. La vittoria è andata alla favorita Xiomara Castro, del partito di sinistra Libertad y Refundacion. Moglie dell’ex presidente Manuel Zelaya, ci aveva già provato nel 2013 e nel 2017 ma era stata sconfitta in entrambi i casi dal Juan Orlando Hernandez del Partito nazionale dell’Honduras. Nel secondo caso ci sono state diverse polemiche sulla regolarità del voto. Le proteste scaturite dal risultato hanno portato, secondo le Nazioni Unite, a scontri con la polizia, vittime e centinaia di arresti. Tra gli altri candidati più quotati ci sono Nasry Asfura, sindaco della capitale Tegucigalpa e candidato del Partito nazionale, e Yani Rosenthal del Partito liberale. L’Honduras ha relazioni diplomatiche ufficiali con Taipei. Un tema entrato improvvisamente in campagna elettorale quando Castro ha lasciato intendere che in caso di vittoria potrebbe compiere il salto del barricata e avviare relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica Popolare.
Hernandez ha risposto recandosi in visita di stato a Taipei poche settimane prima del voto. Castro ha chiarito che “nessuna decisione è stata presa”, ma la possibilità pare essere concreta, tanto che anche gli Stati Uniti si sono affrettati a intervenire intimando Tegucigalpa a non modificare la loro posizione e continuare a riconoscere ufficialmente la Repubblica di Cina, Taiwan (che Washington però non riconosce dal 1979). Ancora una volta è intervenuto sul tema il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, il quale ha accusato Washington di ingerenza nella politica interna honduregna: “Non è dell’approccio della Cina che il popolo latinoamericano dovrebbe diffidare, ma della condotta egemonica di lunga data degli Stati Uniti”, ha detto in conferenza stampa. L’omologa taiwanese, Joanne Ou, ha ribadito la solidità dei legami bilaterali con l’Honduras ma ha anche detto di essere consapevole delle pressioni esercitate da Pechino. Il governo di Taipei ha cercato subito di avviare il dialogo con il nuovo governo honduregno per scongiurare la perdita dell’alleato diplomatico. Le parole di uno dei tre vicepresidenti eletti sembra dare qualche segnale positivo per Taiwan ma la situazione è ancora fluida.
Quanti e quali sono gli alleati diplomatici di Taipei?
Le vicende di Isole Salomone e Honduras hanno componenti molto interne, ma si innestano dunque in qualche modo nell’alveo della competizione tra Cina e Stati Uniti, e in quella tra Repubblica Popolare e Taiwan. A oggi gli alleati diplomatici ufficiali della Repubblica di Cina, Taiwan, sono 15. La maggior parte si trovano tra Pacifico meridionale e America centrale-Caraibi: Palau, Nauru, Tuvalu, Isole Marshall, Belize, Nicaragua, Guatemala, Saint Kitts e Nevis, Haiti, Saint Lucia, Honduras, Saint Vincent e Grenadine. Ci sono poi un alleato in Sudamerica, Paraguay, uno in Africa, eSwatini e infine uno in Europa, Città del Vaticano. Quest’ultimo di gran lunga il più influente. Certamente per Taipei hanno più valore i rapporti con Stati Uniti e Giappone, per quanto non siano ufficiali a livello diplomatico. Anche perché spesso la retorica utilizzata dal governo del Partito democratico progressista sulle relazioni con i cosiddetti “like-minded partners” si schianta con una compatibilità teoricamente molto complicata con paesi non certo esempio per i diritti politici e civili, come il Nicaragua dove tra l’altro si sono svolte delle elezioni nelle ultime settimane che hanno perpetuato il sistema di potere di Daniel Ortega. Eppure, a Taipei ancora serve avere qualche alleato diplomatico ufficiale che possa mettere a verbale la richiesta di partecipazione di Taiwan ai consessi internazionali durante i vari summit o vertici delle organizzazioni di cui fanno parte. All’opposto, la Repubblica Popolare cerca di erodere sempre di più lo spazio diplomatico di Taiwan togliendo alleati. Ecco perché, in qualche modo, ciò che accade a Isole Salomone e Honduras interessa sia a Pechino sia a Taipei.
Il prossimo stato sovrano, insieme all’Honduras, che viene osservato in merito alla sfida tra Pechino e Taipei è quello delle Isole Marshall.
Taiwan al Summit for Democracy e triangolo Taiwan/Cina/Usa
Alla fine la Casa Bianca ha pubblicato l’elenco degli invitati al summit per la democrazia organizzato a Washington per il 9 e 10 dicembre. Nella lista non appare, come prevedibile, il governo cinese, ma c’è quello taiwanese. Come prevedibile, Taipei ha ringraziato Washington per l’invito, Washington ha ribadito l’impegno nei rapporti bilaterali “solido come una roccia” e Pechino ha protestato per l’invito di un rappresentante taiwanese. Ma la linea rossa tracciata da Pechino non è stata in realtà superata, vale a dire il possibile e chiacchierato invito alla presidente Tsai Ing-wen al quale si era lavorato negli scorsi mesi.
Alla fine Biden ha invitato la ministra per il Digitale Audrey Tang, che intanto venerdì 3 dicembre è stata ospite di un evento organizzato dalla Camera di commercio europea a Taiwan, durante il quale è stata intervistata dal vicepresidente Giuseppe Izzo (foto qui sotto).
La scorsa settimana, intanto, una nuova delegazione bipartisan degli Stati Uniti è arrivata a Taipei per una visita. La delegazione includeva i democratici Mark Takano (presidente della commissione Affari dei veterani), Colin Allred, Elissa Slotkin e Sara Jacobs e la repubblicana Nancy Mace. Proprio quest’ultima ha pubblicato un controverso tweet al suo arrivo a Taipei. “Sono appena arrivata nella Repubblica di Taiwan” ha cinguettato Mace. Peccato che il nome ufficiale di Taiwan sia Repubblica di Cina e che di solito venga appunto chiamata Taiwan dai politici stranieri in visita. Aggiungere la parola “Repubblica” davanti a Taiwan è un messaggio rivolto a Pechino e un’insidiosa danza tra indipendenza de facto come Repubblica di Cina e dichiarazione di indipendenza come Repubblica di Taiwan. Il governo taiwanese non ha condiviso il tweet né ha cliccato sul taso “like”, anche perché non ha intenzione di arrivare alla dichiarazione di indipendenza, come più volte ribadito da Tsai.
In programma un nuovo round di dialoghi per la partnership commerciale. Si è parlato anche di chip, con Pechino che esercita pressioni per stoppare l’esclusione dalle catene di approvvigionamento sul settore.
Pechino ha ribadito che su Taiwan non c’è spazio per compromessi e ha risposto con pattugliamenti militari sullo stretto. Utilizzato anche un sottomarino nucleare, in risposta alla recente inaugurazione del sottomarino taiwanese, che secondo un’inchiesta di Reuters è stato costruito grazie alla cooperazione di forze straniere. Pechino sottolinea anche novità nei mezzi aerei dell’Esercito popolare di liberazione. A sostegno delle manovre ci potrebbero essere anche mezzi civili.
Secondo Kissinger non ci sono possibilità di un’invasione nel prossimo decennio, ma Alex Lo risponde all’anziano diplomatico statunitense evidenziando elementi che pongono qualche incertezza sulla bontà della sua previsione.
Il Giappone si schiera
Intanto, il Giappone è sempre più esplicito nel suo interesse a difendere lo status quo sullo Stretto. L’ex premier Shinzo Abe ha dichiarato in maniera chiara che un’ipotetica invasione di Taiwan sarebbe un attentato alla sicurezza nazionale giapponese e che dunque le forze armate di Tokyo sarebbero chiamate a reagire. Ma già prima delle parole di Abe uno studio lasciava intuire quella che il War on the Rocks chiama “rivoluzione” sulla questione taiwanese operata dal Giappone.
Tokyo cerca anche il coordinamento con altri paesi dell’area. “E’ importante che Australia e Giappone possano parlare con una sola voce, e insieme con i paesi democratici alleati, e possano rafforzare la deterrenza, di fronte alle attività coercitive della Cina verso Taiwan”, ha per esempio detto l’ambasciatore giapponese a Canberra Shingo Yamagami in un’intervista al quotidiano Sydney Morning Herald, ricordando che il Giappone ha una sua disputa territoriale con la Cina, sulle isole Senkaku/Diaoyu a nordest di Taiwan, e che segue con attenzione il deteriorarsi della situazione di sicurezza nella regione.
I primi effetti di sanzioni e blacklist di Pechino: il caso Far Eastern Group. Ponti ed estradizioni
Pechino intanto affila l’arsenale normativo per provare a colpire quelli che chiama “secessionisti” taiwanesi. Annunciata la pubblicazione di una versione estesa della blacklist di “indipendentisti” nella quale sono stati inseriti il ministro degli Esteri, il primo ministro e lo speaker dello yuan legislativo.
Come già scritto varie volte su Taiwan Files, questi sviluppi preoccupano i taiwanesi più delle manovre militari. Anche perché possono avere effetti concreti su imprese e privati cittadini taiwanesi. Un primo esempio è arrivato con Far Eastern Group, un’impresa logistica taiwanese operante nella Repubblica Popolare. Il gigante taiwanese è stato sanzionato per una serie di questioni che ufficialmente non hanno a che fare con la provenienza, ma si sottolinea che il conglomerato ha in passato finanziato la campagna elettorale di Su Tseng-chang. Il patron del gruppo, Douglas Hsu, ha dovuto dichiarare la sua contrarietà all’indipendenza taiwanese elogiando lo status quo.
Il messaggio di Pechino indirizzato alle imprese, e potenzialmente ai singoli, è semplice: “Scegliete da che parte stare“.
Mentre il South China Morning Post si interroga sull’opinione pubblica cinese a proposito del dossier Taiwan, il Fujian riesuma i progetti del 2019 sulla costruzione di ponti che uniscano la terraferma alle isole Kinmen e Matsu, amministrate da Taipei ma distanti solo pochi chilometri dalla costa. La settimana scorsa Taiwan Files ha raccontato Kinmen con un reportage, prossimamente racconterà anche le Matsu.
Il Foglio sottolinea invece anche il numero delle estradizioni di cittadini taiwanesi verso la Repubblica Popolare Cinese: 610 in tre anni.
Il caso Lituania e le relazioni con l’Ue
Pechino ha abbassato il livello dei rapporti bilaterali con la Lituania. Come già raccontato più volte, a scatenare l’effetto domino l’uscita di Vilnius dal meccanismo 17+1 e il successivo avvicinamento a Taipei, con l’apertura di un “ufficio di Taiwan” nella capitale del paese baltico. Ma le ritorsioni arrivano anche sul piano c0mmerciale, con diverse notizie di prodotti lituani stoppati dall’ingresso sul mercato cinese. Finbarr Bermingham è stato a Vilnius per raccontare che cosa c’è dietro l’avvicinamento della Lituania a Taipei, che sembra essere una tendenza che unisce parte dell’Europa nord orientale. E si rafforza la cooperazione bilaterale sui semiconduttori.
Questo non ha fermato una delegazione di politici dei tre paesi Baltici (Lituania, Lettonia ed Estonia) dall’arrivare a Taiwan per dialoghi politici e per un incontro con Tsai. La prossima settimana arriverà anche una nuova delegazione dalla Francia, dopo quella di senatori che aveva già visitato Taipei qualche settimana fa.
Ma di Taiwan si parla sempre di più anche in altri paesi europei. Francia e Irlanda hanno passato risoluzioni parlamentari per rafforzare i legami bilaterali e la situazione dello Stretto è citata anche nel programma di governo del nuova coalizione semaforo in Germania.
Semiconduttori e tensioni Taipei-Washington
Apple sta stringendo una partnership più stretta con il gigante taiwanese Tsmc, per ridurre la sua dipendenza dalla multinazionale statunitense Qualcomm. Secondo Nikkei Asia, l’idea sarebbe quella di sviluppare un proprio modem e integrare il chip di Tsmc con il suo processore mobile interno. Quella con l’azienda taiwanese è già una partnership strategica, poiché Tsmc è l’unica produttrice di processori per iPhone e processori per Mac M1. E tra l’altro Tsmc ha appena iniziato la produzione di massa di semiconduttori a 3 nanometri.
Intanto, però, si registra qualche tensione tra Tsmc e i produttori statunitensi. Il presidente del colosso taiwanese ha risposto alla richiesta arrivata da parte dell’amministratore delegato della principale compagnia statunitense del settore, Intel, di limitare gli incentivi alle sole imprese americane, avvertendo che se ciò accadesse ci sarebbe un effetto “negativo” sulle ambizioni dell’Amministrazione Biden di ricostruire una propria industria dei chip. “Se il CHIPS Act Usa sarà esclusivamente destinato alle compagnie statunitensi, questo avrà un effetto contrario alla volontà americana di ristabilire la sua catena di forniture di chip”, ha avvertito Mark Liu. “A parte Intel – ha continuato – io credo che tutti i nostri pari in questa industria abbraccino l’apertura e accolgano positivamente tutti gli investimenti negli Usa”.
Tecnologia e geopolitica sono sempre più collegate. In particolare a Taiwan.
Di Lorenzo Lamperti
Le puntate precedenti di Taiwan Files
27.11 – Kinmen, arcipelago sospeso. Reportage
20.11 – Vecchi amici, alternanze “strategiche” e un po’ di confusione
13.11 – Che cosa pensa Taiwan
06.11 – Sanzioni più “forti” degli aerei, tour Ue, Michelle Wu
30.10 – Ipac a Roma, Wu in Ue, Tsai alla Cnn, Tsmc-Oppo
23.10 – La chiarezza di Biden, rapporti con l’Ue, semiconduttori
16.10 – Incendio a Kaohsiung, 10/10, strategia militare (e non), Harvard
09.10 – Aerei, marines, feste nazionali e incroci diplomatici
02.10 – Eric Chu, movimenti militari, rapporti con l’Ue e chip
25.09 – Elezioni Guomindang, CPTPP, francesi a Taipei
18.09 – Moon Festival, wargames, Pacifico, chip e spazio
11.09 – Super tifoni, venti militari, brezze elettorali e aliti di storia
04.09 – Sicurezza, budget militare, Europa, M5s e fantasmi
Classe 1984, giornalista. Direttore editoriale di China Files, cura la produzione dei mini e-book mensili tematici e la rassegna periodica “Go East” sulle relazioni Italia-Cina-Asia orientale. Responsabile del coordinamento editoriale di Associazione Italia-ASEAN. Scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra cui La Stampa, Il Manifesto, Affaritaliani, Eastwest. Collabora anche con ISPI. Cura la rassegna “Pillole asiatiche” sulla geopolitica asiatica.