La lettura binaria di quanto accade nel paese asiatico ci porta fuori strada. Serve ascoltare e confrontarsi anche con la prospettiva cinese delle cose
In un recente articolo su Foreign Affairs Jude Blanchette, uno dei più attenti osservatori della Cina contemporanea, ha scritto che «Anche se si rimane scettici sui risultati ottenuti dal Pcc, è chiaro che i circoli politici cinesi considerano il proprio e unico sistema politico non come un fattore di debolezza, ma piuttosto con un crescente orgoglio rispetto agli Stati uniti e a altre democrazie. Quando alti funzionari dichiarano che “l’Oriente è in crescita, l’Occidente è in declino”, questa è sia propaganda sia una valutazione oggettiva. Sì, i problemi nel sistema cinese abbondano e Pechino sta sottovalutando in modo preoccupante la resilienza della democrazia americana. Ma è difficile negare che il Pcc nel 2021 sia più forte, più capace e al comando con più risorse che in qualsiasi altro momento nei suoi 100 anni di storia».
Blanchette affronta uno dei temi più ricorrenti, ovvero il crollo del sistema cinese, tante volte annunciato e analizzato, tanto da costituire ormai una sorta di letteratura specifica. La crisi Evergrande, però, non è diventata il «momento Lehman Brothers» in Cina, così come il Covid non ha disgregato e polarizzato la società come accade da noi; ugualmente la normalizzazione di Hong Kong non è stata impedita, mentre l’assertività su Taiwan appare più una volontà a valutare le reazioni che non – al momento – una vera e propria azione da intraprendere con le buone o le cattive.
Tra le sottovalutazioni della Cina c’è dunque la scarsa considerazione riguardo un sistema autoritario in grado di essere percepito più per la sua capacità di risolvere problemi e garantire stabilità, anziché per le sue dure azioni repressive. Molte delle incomprensioni dipendono poi dalla nostra percezione di fare parte di un mondo in lenta e costante perdita di «potere» sullo scacchiere mondiale con la conseguente necessità di trovare un nemico e demonizzarlo, alla ricerca di una ragione per giustificare il nostro sistema economico e politico.
Come riportato nell’ultimo numero dell’Economist, in un articolo nel quale si nega la possibilità che il decoupling tra l’economia americana e cinese possa avere luogo, «l’Asia è importante per le sue dimensioni, con il 36% del Pil mondiale, il 31% della sua capitalizzazione in borsa. È probabile che la regione cresca più velocemente del resto del mondo. È anche il luogo in cui si gioca apertamente la lotta tra America e Cina, con i due sistemi in competizione fianco a fianco. La Cina domina il commercio. Delle 20 principali economie asiatiche, 15 hanno la Cina come principale partner commerciale».
Analogamente la Cina è sottovalutata nelle sue dinamiche interne, anche a causa di una poca conoscenza di quanto si muove all’interno del suo territorio. Quanto risulta più complicato comprendere, ancora prima che accettare, è la dialettica esistente tra Pcc e cittadini. Il 21 novembre Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, riprendendo un precedente articolo di Federico Rampini, si chiedeva perché mai «non può esistere una Greta cinese». Per la semplice ragione – si rispondeva Panebianco – «che se un dissidente (a qualunque titolo) solleva il capo da quelle parti, glielo tagliano immediatamente».
Non si può negare la capacità del Pcc di bloccare sul nascere eventuali movimenti o gruppi di dissidenti, ma la questione ambientale è il simbolo di una sottovalutazione del modus operandi del Pcc (oltre che di una scarsa conoscenza di quanto accade nel paese, qualcosa che si può ottenere vivendoci o informandosi da reti sociali e media cinesi e non solo da quotidiani anglosassoni): nel 2011 le proteste ambientali in Cina aumentarono del 120%, chiudendo uno dei periodi più intensi della storia recente dei movimenti ambientalisti locali. Questo tipo di proteste in Cina ha avuto successo, arrivando a modificare – in alcuni casi – i piani del governo.
Perché? Secondo Liu Jianqiang, giornalista d’inchiesta ed esperto ambientale cinese, editor del sito Chinadialogue.net, ci sarebbero tre motivazioni precise: in primo luogo, l’inquinamento all’epoca aveva raggiunto picchi intollerabili diventando palesemente «una minaccia per la vita e la salute». In secondo luogo, e questa ci sembra la motivazione più importante, i diritti ambientali sono apolitici: chi protesta «non contesta l’autorità del sistema attuale. I manifestanti non devono temere di essere accusati di opporsi al governo». In terzo luogo, le questioni ambientali hanno un impatto più ampio rispetto a espropri illegali e controversie di lavoro. «Un grande impianto chimico potrebbe avere un impatto su milioni di persone».
Scoprimmo così che in Cina la protesta ambientale, al contrario di molti altri tipi di contestazioni, era qualcosa di consentito, tanto più che le proteste avevano obiettivi specifici, come la chiusura o il miglioramento di fabbriche in luoghi ben precisi, e non miravano a un cambiamento politico più generale. Queste azioni segnalavano, inoltre, anche la crescita in quanto società civile dell’allora emergente middle class cinese e il suo tentativo di forgiare la propria capacità di impattare culturalmente sulla società attraverso le contestazioni ambientali, con le quali di fatto chiedeva una migliore qualità della vita.
Un’altra sopravvalutazione della Cina avviene nel campo internazionale: è sicuramente vero che la Belt and Road initiative si pone come progetto ibrido in grado di impensierire gli Stati Uniti, ma è altrettanto chiaro che al momento le mire cinesi sono per lo più commerciali e non di natura politica, nonostante alcuni report provino a dimostrare una crescente influenza in termini di lobbying da parte di Pechino. Se mai ci fossero, forse, queste influenze andrebbero cercate in modo più serio, senza dimenticare che mai come in quest’ultimo periodo – dall’arrivo di Biden alla Casa bianca – l’immagine della Cina è stata così debole sui media e nell’opinione pubblica internazionale.
Eppure la Cina si sta trasformando e noi stiamo sottovalutando questo processo: Pechino sta mettendo in campo la nascita di un nuovo modello di sviluppo basato sulla limitazione dello strapotere delle piattaforme e la nascita di un quadro normativo del mondo digitale che secondo molti osservatori dovrebbe essere interessante anche per l’Occidente, ha intensificato l’attività antitrust, ha bandito le criptovalute, ha limitato l’uso dei giochi online, ha lasciato intendere che è finito il tempo delle speculazioni immobiliari, ha lanciato una sperimentazione sulle tasse sulle case, sta studiando una patrimoniale e un sistema di redistribuzione «terziaria», sta cercando una via nazionale e autosufficiente da un punto di vista tecnologico.
Perché stiamo sottovalutando tutto questo? Il motivo è da ricercare nell’assenza di quella che Kaiser Kuo – ex manager di Baidu e autore di Sinica, uno dei migliori podcast sulla Cina – ha chiamato «empatia informata» in un articolo su SupChina che sarebbe da fare leggere a tutte le redazioni dei media italiani.
Secondo Kaiser Kuo, analizzare la Cina in termini binari è fuorviante, sostiene, perché in questo modo «diventiamo inclini, da un lato, a sopravvalutarne ed esagerarne le capacità , e dall’altro a sottovalutarla enormemente». Abbiamo invece bisogno di potere «vedere le cose da più angolazioni»: «C’è una prospettiva, vitale per la nostra comprensione della Cina, che viene troppo spesso tralasciata, ed è la prospettiva cinese. Sì, certo, ci sono molteplici prospettive cinesi e questo va assolutamente tenuto a mente ma non possiamo lasciare che questo ci impedisca di cercare di capire il punto di vista che sta dietro gli occhi della nostra controparte cinese».
Come approcciare questo strambo paese dunque? Kaiser Kuo propone molte prospettive tra le quali la necessità di «prendere sul serio ciò che dicono la Cina e i suoi leader, ma senza presumere che la Cina farà sempre ciò che dice che farà. E dobbiamo raccogliere la sfida che la Cina presenta senza precludere la possibilità di una convivenza pacifica duratura. Ciò richiederà una riduzione dell’arroganza americana. Ci richiederà di impegnarci molto di più per arrivare a una comprensione multidimensionale, che possa riconoscere, accettare ed elaborare tutte le contraddizioni fastidiose, tutte le complessità della Cina».
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifestio]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.