Cosa c’entra l’arresto di un noto giornalista investigativo con l’ultimo blockbuster patriottico cinese, la nuova stretta sui media e il sesto plenum del partito comunista?
“Ha infranto l’onore e la reputazione dei martiri”. Questa l’accusa con cui l’8 ottobre la polizia di Hainan ha arrestato il noto giornalista investigativo, Luo Changping, per aver criticato sui social media l’ultimo blockbuster cinese, “La battaglia del lago Changjin“, polpettone patriottico sulla partecipazione dei volontari cinesi nella Guerra di Corea, diventato campione d’incassi al box office durante la festa per i 72 anni della Repubblica popolare. Secondo la vulgata ufficiale, i caduti in guerra sono un “simbolo indelebile”, ma per Luo, già noto per le sue scomode inchieste sulla corruzione degli alti papaveri, si sarebbe trattato di un sacrificio “ingiustificato”. Non sono bastate le scuse pubbliche e la rimozione del post incriminante. Le autorità hanno dichiarato di aver agito dopo aver ricevuto “molte lamentele”; segno di come il commento del giornalista abbia avuto “una pessima influenza” sul pubblico.
Dall’inizio di quest’anno un emendamento al codice penale criminalizza il vilipendio agli eroi della patria con pene fino ai tre anni di carcere. A giugno Qiu Ziming, un blogger con 2, 5 milioni di seguaci su Weibo, è stato incarcerato per aver contestato il bilancio ufficiale delle vittime nello scontro al confine sino-indiano dello scorso anno.
Il periodo è particolarmente sensibile. Il giro di vite sui commenti antipatriottici precede di circa un mese l’atteso sesto plenum del Partito comunista, durante il quale ci si attende verrà rilasciata un’importante revisione della storia cinese dalla fondazione del partito. La terza in assoluto dopo le formulazioni del 1945 e del 1981. L’arresto di Luo è avvenuto lo stesso giorno della divulgazione di nuove linee guida che, se approvate in via definitiva, blinderanno l’industria mediatica cinese agli investimenti privati. La bozza chiarisce che il “capitale non pubblico” non potrà “finanziare, istituire o gestire agenzie di stampa, giornali, società editoriali, stazioni radiofoniche o televisive” né “ospitare forum di notizie o presentare premi”. Vietata anche la diffusione di notizie riportate da entità straniere.
Censura a parte, dal 2005 a oggi in Cina il settore dell’informazione ha vissuto fasi alterne: alle timide aperture della precedente amministrazione è seguita la brusca chiusura dell’era Xi Jinping, in cui più che mai le notizie devono servire il potere politico e svolgere un ruolo educativo. Le ultime direttive paiono quindi voler restringere le maglie delle attuali misure, introdotte nel 2020 dalla Cybersecurity Administration e aggirate agilmente, soprattutto dai popolarissimi new media. Che stavolta Pechino faccia sul serio lo si intuisce dal mittente del diktat: la più autorevole Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, il principale organo di pianificazione economica.
Caijing, il magazine per cui ha lavorato Luo, potrebbe rientrare tra i media off-limits insieme a Caixin, una delle poche testate cinesi a proporre ancora giornalismo d’inchiesta. Sinora le due riviste sono riuscite a dribblare i paletti includendo quote di partecipazione statale, escamotage ampiamente diffuso nel settore. La fondatrice di entrambe, Hu Shuli, un tempo considerata tra le donne più influenti del mondo, pochi giorni fa ha rilanciato online un articolo velatamente critico nei confronti di Xi Jinping, in cui si allude alla relazione sempre più problematica con il vicepresidente Wang Qishan. Uno dei principali sostenitori di Hu e del suo impero editoriale che, a giudicare dal basso profilo degli ultimi anni, pare aver perso l’appoggio di Xi. Siamo vicini alla resa dei conti finale?
Lotte di potere a parte, la manovra sembra anche voler colpire di rimbalzo le big tech, nell’occhio del ciclone da mesi tra indagini antitrust e nuove misure sulla sicurezza informatica. Proprio di recente Alibaba ha disinvestito da Mango Tv, l’emittente di cui aveva acquisito solo a dicembre una quota del 5%. Negli ultimi giorni diverse testate locali hanno riportato la notizia non ancora confermata del disimpegno del colosso dell’e-commerce dall’azionariato di Caixin.
Il nesso tra la stretta sulle aziende private e il maggiore controllo sull’informazione trova conferma in un commento online di Li Guangman, blogger di estrema sinistra balzato agli onori della cronaca locale per aver recentemente definito una “profonda rivoluzione” la campagna lanciata da Pechino per ridimensionare la visibilità e il potere economico di imprenditori miliardari e star dello spettacolo. Linguaggio che, per alcuni analisti, rievoca il radicalismo ideologico della rivoluzione culturale di epoca maoista. Senza spargimenti di sangue, certo. Ma il crescente uso di rettificazioni, delazioni e autocritiche – abbinato a una maggiore intolleranza verso i valori occidentali – ricorda per certi versi un passato doloroso e ancora controverso su cui il prossimo plenum potrebbe forse fare luce.
Per Li, l’arresto di Luo Changping e le nuove linee guida segnalano come “il capitale pubblico si stia riprendendo il diritto alle notizie e l’opinione pubblica”. L’informazione diventa così terreno di scontro tra il Partito/Stato e le organizzazioni private per conquistare la lealtà di milioni di user e un mercato a nove zeri. Secondo il China Media Project della University of Hong Kong, la forte esposizione mediatica suggerisce che il caso di Luo serve da monito per influencer e piattaforme digitali, sempre più popolari e potenti. Serve a colpirne uno per educarne cento.
Di Alessandra Colarizi
Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.