Con il termine sinofobia si intende la razzializzazione e la discriminazione verso persone dai tratti asiatici nelle società a maggioranza bianca. Per poter comprendere la sinofobia in Italia si deve però prima affrontare un altro fenomeno: il razzismo, di cui la sinofobia è un tratto specifico.
Quando si parla di razzismo molti italiani si ergono per ribadire in toni accorati che l’Italia non è razzista. Che si sta esagerando, che si può parlare di indifferenza, di diffidenza, di paura, addirittura di discriminazione ma non di razzismo. No, non siamo ancora lì. Secondo questo ragionamento, le occhiate e i commenti sprezzanti rivolti ai sino-italiani considerati untori del Covid non sono atti razzisti. E non lo è neanche descrivere una bambina cinese che confonde la “elle” o la “erre” in un sussidiario per le scuole primarie come nel caso Giunti. Non è razzismo, ma solo episodi al limite del lecito e del buon gusto. Ma è proprio così? O invece si scoperchia la paura degli italiani di affrontare il fenomeno del razzismo nella nostra società? Forse non vogliamo svegliarci dal sogno di “italiani brava gente” e fare lo sforzo di comprendere il funzionamento di certi meccanismi di potere e di discriminazione. Riflettendoci, potremmo renderci conto di essere cresciuti in una società piena di pregiudizi culturali e che solo conoscendoli e analizzandoli si possono decostruire meccanismi che durano da sempre e che ci influenzano profondamente. Potremmo capire ad esempio che compiere un atto razzista non vuol dire essere razzisti. Bisogna solo leggere correttamente la complessità della nostra realtà e del mondo circostante.
Come nel caso di Striscia la notizia, dove i due conduttori del programma hanno imitato errori di pronuncia in italiano di persone cinesi e fatto il gesto di allungarsi gli occhi con le mani, il tutto in un programma televisivo che viene guardato da 5 milioni di italiani ogni sera. Fatto che peggiora il cosiddetto ”scherzo” perché attraverso i media normalizza ed esemplifica un comportamento a dir poco discutibile. Non la pensa così il pubblico mainstream che sui social continua a considerare quest’episodio come non razzista. E bolla come esagerate le reazioni indignate delle seconde generazioni e dei sino-italiani in particolare. Soprattutto perché sono artisti quindi hanno libertà di espressione, di pensiero, di satira. Così facendo però spostano l’attenzione dal fatto in sé verso un’accusa di amor proprio ferito e di “non saper più ridere”. Ma forse, non è necessario offendere per risultare divertenti, forse si può creare una comicità diversa. Immaginatevi che sfida interessante ed entusiasmante per gli artisti contemporanei cercare di far ridere tutti, senza utilizzare situazioni potenzialmente discriminatorie.
Nel caso della sinofobia c’è un altro elemento che rende la situazione ancora più complessa, e cioè la presenza di una Cina che da paese del “terzo mondo” entra di prepotenza nel novero del “primo mondo” e la cui influenza ha delle conseguenze sulle comunità della diaspora che ancora non riusciamo a vedere. E’ interessante però notare come nell’episodio di Striscia la Notizia, la conduttrice Michelle Hunziker, moglie di un esponente di una nota casa di moda italiana, abbia girato un video di scuse solo dopo che la notizia era stata rilanciata dall’account Instagram Diet Prada, noto per aver sollevato lo scandalo di Dolce&Gabbana qualche anno fa, quando i due stilisti persero una fetta importante del loro mercato cinese. Segno di come la paura di un’eventuale perdita economica influisca di più di proteste nostrane.
Emblematica dell’ascesa della Cina nel panorama mondiale, la situazione della sinofobia negli Stati Uniti. Sul sostrato di pregiudizi contro gli asiatici si è aggiunta la propaganda anti- Cina di un governo ed un ex-presidente che accostando più volte le parole “virus” e “cinese” hanno creato un binomio che inevitabilmente ha influito sulla vita dei circa 21 milioni di cittadini asiatico-americani (dati censimento 2016). C’è da chiedersi anche se ci sarà mai una disponibilità al dialogo paritario con un presidente dai tratti cinesi da parte di presidenti americani bianchi che non paiono aver decostruito certi meccanismi eredi della colonizzazione e della supremazia bianca. Resta, pesante come un macigno, il dato statistico denunciato dallo Stop AAPI Hate, dell’aumento nel 2020 di circa trecento per cento delle violenze contro gli asiatici americani, la maggior parte contro anziani e donne come testimonia la strage di Atlanta del 17 marzo 2021 dove furono uccise sei donne asiatiche.
Negli Stati Uniti l’escalation di violenza contro le minoranze ha dato avvio all’alleanza tra vari movimenti come quello dell’AAPI e dei Black Lives Matter. Anche in Italia, dopo l’episodio di Striscia la Notizia, i primi post a riguardo partirono da account di attivisti afrodiscendenti. Solo il tempo potrà dirci se seguiremo l’esempio americano di alleanza delle associazioni “anti-hate” ma consola vedere la crescente consapevolezza tra i giovani italiani di diversa origine. L’Italia potrebbe anche imparare dalle esperienze di altri paesi come gli Stati Uniti che hanno una più lunga storia di migrazione, studiandone errori e imparandone le buone pratiche. Ma ancor più importante sarebbe la diffusione della consapevolezza profonda del funzionamento del razzismo nella nostra società. Ci renderemmo conto allora che l’Italia è già multietnica, è già multiculturale, bisogna solo renderla più giusta, più equa e più inclusiva.
Di Jada Bai