Crisi energetica. Nel 2021, visto il rincaro del gas, gli Stati Uniti bruceranno il 22 per cento di carbone in più rispetto al 2020: si tratta del primo aumento su base annua dal 2014
Di «fredda», tra Stati Uniti e Cina, non c’è la guerra ma la temperatura (oltre cento gradi sotto zero) del gas naturale liquefatto. Almeno cinque compagnie cinesi, inclusi i colossi petrolchimici statali Sinopec e CNOOC, stanno negoziando con alcune società americane per assicurarsi forniture di lungo termine del combustibile. Che, caricato sulle metaniere e spedito verso i terminal della Repubblica popolare, potrebbe contribuire ad alleviare la crisi energetica in corso nel paese. La carenza di carbone (la fonte nettamente più utilizzata) ha già obbligato le autorità a razionare l’elettricità in gran parte del territorio nazionale. Da nord, poi, soffiano venti gelidi mentre scendono le prime nevi; l’inverno si avvicina; la domanda di energia è destinata ad aumentare. E con lei i prezzi, già altissimi.
Per tenere al caldo la popolazione e non compromettere l’attività industriale, Pechino ha allora adottato una serie di misure: sta ad esempio incentivando l’estrazione di carbone dalle miniere e facendo pressione sulle aziende affinché importino gas liquefatto (GNL) dall’estero. Alcune di queste si sono rivolte agli Stati Uniti, che sono i più grandi produttori di gas al mondo e si stanno attrezzando per diventarne degli esportatori di primo piano. La settimana scorsa la società di distribuzione del gas ENN ha firmato un contratto d’acquisto di GNL con Cheniere dalla durata di tredici anni: è il primo grande accordo sul gas tra le due nazioni da quando Donald Trump diede inizio alla trade war, nel 2018. Ma i flussi non partiranno prima di luglio.
L’interdipendenza commerciale tra Washington e Pechino è forte, anche sull’energia: l’America importa dalla Cina le terre rare per le turbine eoliche; da mesi i cinesi attingono al carbone americano per compensare il ban all’Australia. Le trattative sul gas liquefatto soddisfano gli interessi di entrambe le parti. Una ha voglia di far profitto e di ridurre il deficit nella bilancia degli scambi. L’altra ha necessità di garantirsi la sicurezza energetica, di tagliare le sue emissioni (il gas rilascia molta meno CO2 del carbone) e possibilmente di non spendere troppo: la convenienza di prezzo del GNL statunitense è maggiore rispetto al resto dell’offerta in Asia, senza contare l’impennata del costo del carbone in Cina, prossimo a toccare il valore record di 2000 yuan a tonnellata.
La crisi energetica della Cina ne complica la transizione intrapresa verso le fonti a basse emissioni di gas serra: il carbone – sul quale Pechino farà più affidamento, nel breve termine – è il più «sporco» dei combustibili fossili e il meno coerente con i propositi di sostenibilità. Ma rinunciarvi da un giorno all’altro è impossibile, specialmente per un paese che ne è così dipendente. Lo sa bene Xi Jinping, che ha sposato l’azione climatica ma non parteciperà alla COP26 delle Nazioni Unite a Glasgow. E lo sa anche il suo omologo americano Joe Biden, che vuole portare la nazione alle zero emissioni nette entro il 2050 installando quanti più impianti rinnovabili possibile. Nel 2021 però, visto il rincaro del gas, gli Stati Uniti bruceranno il 22 per cento di carbone in più rispetto al 2020: si tratta del primo aumento su base annua dal 2014. È un caso isolato che non si ripresenterà in futuro, assicurano da Washington. Ma le previsioni dicono che quest’anno l’America produrrà 588 milioni di tonnellate di carbone, una cinquantina in più del 2020; nel 2022 la cifra salirà ancora, a 622 milioni. Gli esempi delle prime due economie globali ci raccontano qualcosa: scarsa ambizione e ipocrisia; oppure che la transizione ecologica non è una linea retta.
Di Marco Dell’Aguzzo
[Pubblicato su il manifesto]