Prima la crisi immobiliare, poi quella energetica. In questi giorni l’elettricità in Cina viene distribuita a singhiozzo, con particolari cali di tensione nelle province del Nord est. Complice la scarsa comunicazione dei governi locali, ecco che il piano di Pechino per abbattere le emissioni e calmierare i consumi sta creando problemi in tutto il Paese.
La situazione è peggiorata negli ultimi sette giorni, quando le interruzioni nella rete hanno costretto le fabbriche a interrompere la produzione. Ma non è la prima volta. Quello che sta accadendo in Cina è frutto di una politica del 2015, quando per la prima volta il 18° Comitato Centrale del Pcc promosse l’idea di avviare il «doppio controllo del consumo energetico». Incrociando i dati di consumo energetico totale con quelli di intensità energetica del comparto industriale, Pechino può definire i target di consumo massimo concessi alle province su base quinquennale. L’ultima azione disciplinare in merito risale all’11 settembre, quando la Commissione nazionale per lo sviluppo ha pubblicato le statistiche dei consumi del 2021, osservando come tutte le province avessero in modo più o meno grave superato la soglia di consumo prestabilita.
Con i nuovi obiettivi climatici la stretta di Pechino sul settore energetico si è fatta ancora più forte. I prezzi del carbone continuano a salire, il mercato delle emissioni sta finalmente iniziando a dare i primi frutti e la tolleranza verso la malagestione dei governi locali è agli sgoccioli. La transizione energetica non è un compito facile: il carbone utilizzato in Cina copre metà del totale consumato a livello globale, mancano le tecnologie per conservare l’energia prodotta da pale eoliche e pannelli solari, le centrali nucleari sono in aumento ma richiedono anni nonostante i nuovi reattori modulari di produzione locale.
Le banche centrali hanno interrotto i finanziamenti per tutti i nuovi progetti legati al carbone. Infine, manca ancora un vero piano per la creazione di un mercato energetico partecipato, obiettivo che gli esperti sperano da anni di raggiungere per ottimizzare la distribuzione dell’energia e rendere la rete più sicura. Intanto, il tempo corre: Pechino prevede di raggiungere il picco delle emissioni non più tardi del 2030, mentre l’allocazione ottimale delle risorse energetiche dovrà avvenire entro il 2035. I blackout improvvisi di queste settimane sono oggetto di forte malcontento sociale, disagi che il Partito cerca di deviare sull’inefficienza dei governi locali.
Su alcuni media in lingua cinese si inizia a parlare di come il benessere dei comuni cittadini cinesi e il percorso di sviluppo della Cina siano ora fortemente «penalizzati» dalle restrizioni. Ma l’evento ha anche una portata internazionale. Le maggiori corporations dipendono dai fornitori cinesi, tant’è che le stesse Apple e Tesla hanno visto rallentare l’approvvigionamento di componenti essenziali subappaltati ad aziende cinesi. Per rispettare i target di consumo energetico i governi locali hanno chiesto alle imprese di interrompere la produzione per qualche giorno, spesso senza specificare quando potranno riprendere a lavorare. I tagli ai consumi elettrici potrebbero durare fino alla fine dell’anno, un sacrificio che potrebbe avere anche effetti positivi. Secondo gli economisti Deng Haiqing e Wang Shuqin il razionamento dell’energia elettrica potrebbe essere il «male minore» per l’economia che, sacrificando un po’ di crescita, potrebbe riequilibrare l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni e tamponare l’aumento dei prezzi delle materie prime. Un salvagente per la Cina, ma un possibile colpo di coda ai paesi sviluppati che hanno sempre guadagnato dal sistema ‘made in China’.
Di Sabrina Moles
Pubblicato su Il Manifesto
Formazione in Lingua e letteratura cinese e specializzazione in scienze internazionali, scrive di temi ambientali per China Files con la rubrica “Sustainalytics”. Collabora con diverse testate ed emittenti radio, occupandosi soprattutto di energia e sostenibilità ambientale.