L’orario del 996, le dodici ore al giorno per sei giorni a settimana tipiche di un impiego nel tech, rappresenta una grave violazione della legge. È quanto sentenziato da un documento emesso alcuni giorni fa dalla Corte suprema del popolo e dal Ministero delle risorse umane, attraverso l’analisi di dieci casi di controversie sul lavoro. L’obiettivo è «chiarire gli standard di applicazione legale dell’orario di lavoro e della paga degli straordinari».
SECONDO gli articoli 26, 41 e 43 della legge vigente, «il datore di lavoro può estendere l’orario per le necessità della produzione», non superando però le trentasei ore mensili extra. Le norme aziendali che permettono orari più lunghi, quindi, sono da considerarsi illegali, come anche i diffusi accordi secondo cui il dipendente rinuncia volontariamente alla paga degli straordinari.
Questo intento regolatore giunge dopo che molti si sono mostrati critici nei confronti dello standard non scritto per l’impiego da “colletto bianco” – ma anche per qualsiasi lavoretto da gig economy – che prevede dodici ore al giorno e una assoluta dedizione al lavoro, diffuso a tal punto da diventare argomento di tendenza nel 2019. A marzo di quell’anno, infatti, il dominio 996.ICU (Intensive Care Unit) apparso su GitHub aveva veicolato le proteste di sviluppatori e altri lavoratori, tanto da spingere diversi browser cinesi come Qihoo e Xiami a limitare l’accesso al sito.
OLTRE ALLE CELEBRI dichiarazioni di Jack Ma sulla “benedizione” di settantadue ore lavorative settimanali, a difendere la cultura degli straordinari era intervenuto già a inizio anno Zhu Ning, fondatore della società di e-commerce Youzan, che nel suo account WeChat aveva scritto: «Se non senti alcuna pressione sul lavoro è perché il tuo datore di lavoro sta per morire».
Ma sembra che negli ultimi mesi la convinzione che turni lunghi e alta competitività siano sinonimo di successo assicurato stia venendo meno, soprattutto dopo la ulteriore ondata di indignazione a seguito di alcune morti legate all’overworking. A giugno uno studio di animazione di proprietà di Tencent, casa madre di WeChat, ha introdotto una politica che obbliga i dipendenti a staccare alle sei di sera e a non lavorare nel weekend.
E NELLE SCORSE settimane altre tre big tech hanno annunciato la fine del sistema di alternanza tra settimane di cinque giorni lavorativi e settimane di sei giorni, domenica compresa: si tratta di Meituan, leader nella consegna espressa, ByteDance, società della app Douyin – o Tik Tok per i non cinesi, e Kuaishou, altra nota app di video brevi, il Ceo della quale è famoso per essere uno dei cosiddetti “imprenditori buddisti”, giovani promesse che scelgono un ritmo di lavoro più lento.
MA NELLO SCENARIO lavorativo ancora influenzato dalla pandemia di Covid-19 non basta l’iniziativa individuale per invertire la rotta. Più che una lotta tra imprenditori illuminati e paladini della cosiddetta “cultura del lupo”, caratterizzata da scaltrezza e competitività, lo scenario attuale è quello di un partito impegnato a “disciplinare i giganti tecnologici” attraverso indagini da parte della autorità regolatrici, multe, e obblighi di auto-rettifica.
Questa recente presa di posizione, inoltre, si iscrive nell’ottica di “prosperità comune”, obiettivo politico a largo raggio che mira a ridurre la povertà e le disuguaglianze di reddito e aumentare i consumi. Un punto di vista sintetizzabile dalle parole di due giorni fa di Luo Jiwei, ex ministro delle Finanze: in occasione dell’ ESG Global Leaders Summit per uno sviluppo economico sostenibile, ha dichiarato che contrastare il 996 rientra tra gli obblighi della responsabilità sociale delle aziende e che, inoltre, un orario di lavoro così lungo ha effetti negativi sull’occupazione.
Ma sul web la notizia ha generato una nuova cascata di commenti polemici: molti raccontano le proprie esperienze con impieghi precari e flessibili a basso reddito, che non garantiscono un sistema assicurativo e tutele legali sufficienti. Problematiche che, secondo un’analisi delle ultime ore del gruppo mediatico cinese Caixin, necessitano di interventi ben più radicali dei cauti tentativi di regolamentazione delle autorità cinesi.
Di Vittoria Mazzieri
[Pubblicato su il manifesto]