C’è anche la finanza italiana nell’ultima denuncia di BankTrack (Bt) e Justice for Myanmar (JfM), due organizzazioni della società civile che fanno le pulci a soggetti economici che hanno avuto e in alcuni casi hanno ancora relazioni con i golpisti birmani, che da febbraio hanno già ucciso oltre 930 oppositori e ne tengono in galera quasi 7mila, tra cui i vertici della Lega di Aung San Suu Kyi. In alcuni casi, le aziende (specie i colossi petroliferi) hanno fatto marcia indietro dopo le denunce degli oppositori alla giunta. In altri, han preso subito le distanze. C’è poi chi ha fatto spallucce.
LE DUE LISTE. Bt e JfM hanno compilato una lista con 19 banche che investono ciascuna oltre un miliardo di dollari in società che lavorano con la giunta militare: Crédit Agricole, Sumitomo Mitsui Trust, Mitsubishi UFJ Financial, Bank of America, JP Morgan Chase & Co., UBS, Deutsche Bank, Morgan Stanley, BPCE Group, Credit Suisse, Mizuho Financial, Société Générale, Wells Fargo & Co., Goldman Sachs, Royal Bank of Canada, BNP Paribas, Barclays, DZ Bank, Toronto-Dominion Bank. Un’altra lista di Bt e JfM mette in luce partecipazioni minori, fino a 100 milioni, di altri istituti. Negli elenchi sono menzionate anche due banche italiane: Unicredit e Intesa.
I Big-19 non sono nuovi a scandali e accuse. JP Morgan nel 2018 accettò di versare agli Usa quasi 5,3 milioni di dollari per la presunta violazione «87 volte» delle sanzioni imposte a Cuba, Iran e Siria (tra cui quelle contro le armi di distruzione di massa). Non da meno l’elvetica Ubs: nel 2008 l’India avviò un’indagine su trafficanti d’armi per riciclaggio, sospendendogli la licenza. Un controllo ai giapponesi del Mizuho Financial Group rivelò invece prestiti fino a 1,9 milioni di dollari alla Yakuza, la mafia giapponese.
L’accusa del 2007 per la Royal Bank of Canada era invece di rifiutarsi di aprire conti a loro cittadini con doppia cittadinanza (birmana, cubana, iraniana, sudanese). Tra quelle mosse ai britannici della Barclays, sostegno finanziario al governo dello Zimbabwe di Mugabe (ignorando le sanzioni dell’Ue) e riciclaggio dei proventi del petrolio rubati alla Guinea Equatoriale.
IL CASO UNICREDIT. In realtà, il possesso di azioni o il finanziamento di società presenti «sulla carta» in Myanmar non vuol dire automaticamente che le aziende finanziate siano ancora attive dopo il golpe. È il caso di Eni, cui Unicredit contribuisce con circa 280 milioni, che ha ripetutamente smentito attività in Myanmar poiché quelle a suo tempo concordate col governo di Suu Kyi sono state interrotte dopo il golpe di febbraio.
Quanto alla Royal Dutch Shell il contributo di Unicredit è di poco più di tre milioni: il colosso olandese ha effettivamente interessi estrattivi in Myanmar, dov’è associato a un progetto il cui capofila è l’australiana Woodside che dice però di non avere «alcuna attività produttiva in Myanmar» né entrate.
Quanto invece ad altri giganti nel mirino degli attivisti, e finanziati dalle Big-19, ci sono corazzate energetiche del calibro di Total e Chevron. Ma se l’amministratore delegato Patrick Pouyanne aveva spiegato in aprile sul Journal du Dimanche – quando la società francese era finita nel mirino degli attivisti – che l’azienda petrolifera da lui guidata doveva continuare a produrre gas in Myanmar e pagare le tasse alla giunta per «proteggere» il personale dal lavoro forzato e garantire le forniture di elettricità al Paese, a fine maggio ha cambiato idea: Total, seguita dagli statunitensi di Chevron, ha sospeso almeno i dividendi in contanti al gruppo statale birmano Moge (petrolio/gas). Effetto della forte pressione pubblica.
IL CASO INTESA. Per Intesa-San Paolo il caso è un po’ diverso. Secondo il rapporto, anche se la cifra complessiva è di «soli» 488 milioni (dati giugno 2020), la banca ha finanziato o acquisito azioni in praticamente tutte le aziende (una quindicina) che le organizzazioni denunciano come «collaborazioniste» per i legami con aziende di Stato o collegamenti con i conglomerati Mehl e Mec, già sotto la lente delle Nazioni unite nel 2019, tre anni prima del golpe.
L’Onu pubblicò un rapporto sul potere economico di Tatmadaw, l’esercito birmano, mettendo sotto scrutinio proprio i due conglomerati che di fatto controllavano e controllano l’economia del Paese: Myanmar Economic Holdings Limited e Myanmar Economic Corporation. La conclusione del rapporto era che Mehl, Mec e affiliate garantivano risorse finanziarie anche per sostenere le attività illecite dei militari – accusati di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità – eludendo così la supervisione delle autorità civili.
Va detto che molte di queste aziende hanno già fatto un passo indietro (la coreana Posco per esempio) ma che altre fan finta di nulla (la Sinotruk di Hong Kong, accusata di aver fornito i cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti; il gruppo Hilton, chiuso, ma per motivi sanitari; l’immobiliare Tokyo Tatemono).
Interpellata da il manifesto prima di questo articolo, Intesa-San Paolo non ha al momento fornito spiegazioni.
Di Emanuele Giordana e Alessandro De Pascale
[Pubblicato su il manifesto]