Dopo aver accolto in modo glaciale la vice segretaria di Stato americana, la Cina ha invece salutato in modo più accurato una delegazione talebana arrivata a Tianjin. Un incontro era già avvenuto nel 2019, ma era un mondo fa e la delegazione talebana non era quella giunta in questi giorni a Pechino, capeggiata dal capo politico dell’organizzazione, Mullah Abdul Ghani Baradar.
In Afghanistan si compie uno dei disastri americani in giro per il mondo: una guerra fatta per sconfiggere i taliban. Oggi i barbuti, stando alle cronache, controllano gran parte del paese e si muovono come dei capi di Stato. L’avvio del ritiro delle truppe Usa ha dato la spinta finale alla nuova riconfigurazione afghana. La Cina ha più motivi per negoziare con i talebani, considerati i futuri detentori delle chiavi economiche e politiche del paese. Intanto, c’è un confine, attraverso il corridoio del Wharkan, una striscia di terra che collega i due paesi. Poi c’è una data. Il 1980 è un anno da far girare la testa: l’anno prima l’Urss ha invaso l’Afghanistan, la Cina combatte con il Vietnam.
E Pechino dal 1980 in Afghanistan appoggia i mujahideen: li addestra e li finanzia con armi, comprate dagli americani. Siamo all’acme dei rapporti burrascosi tra Cina e Urss. Nel 1982 Deng Xiaoping disse che «i problemi in Afghanistan sono di importanza strategica globale. La Cina e l’Afghanistan condividono un confine, questo costituisce una minaccia per noi perché può geograficamente circondare la Cina».
Secondo la maggior parte degli analisti, dire Afghanistan, per la Cina, significa dire Xinjiang, nel 1980, così come oggi. Il corridoio del Wharkan, infatti, arriva in Cina tramite lo Xinjiang. Un mese fa i taliban hanno conquistato quella regione afghana. La Cina ha chiesto ai Talebani un impegno pubblico per fare in modo che quel territorio non possa essere utilizzato da terroristi (uiguri) come base per effettuare attacchi all’interno della Cina e di interrompere i legami con l’East Turkestan Islamic Movement (Etim), che per Pechino fomenta separatismo e fondamentalismo in Xinjiang.
La Cina già qualche anno fa provò a entrare nei meccanismi dei processi di pace in Afghanistan. Nel 2016 Li Shaoxian, studioso cinese e vicepresidente dell’Associazione cinese di studi sul Medio Oriente, raccontava al New York Times che «i talebani non saranno spazzati via, perché sono profondamente radicati nella base della società, quindi Pechino, Washington e Kabul hanno accettato il fatto che, beh, dobbiamo includerli nel processo di pace e riconciliazione» Ed eccoci agli incontri di questi giorni. La Cina – che ha promesso aiuti nella ricostruzione – ha da tempo interessi specificamente economici attraverso investimenti come ad esempio i tre miliardi di dollari per sviluppare la miniera di rame di Aynak. E naturalmente c’è la via della Seta.
Come al solito la Cina ha bisogno soprattutto di stabilità, ma è sempre all’erta, per questo tiene ancora in conto il governo di Kabul (Xi Jinping ha telefonato al presidente Ghani il 16 luglio). La ritirata Usa spiana anche questo fronte a Pechino. Un fronte non nuovo, ma dallo scenario notevolmente mutato.
Di Simone Pieranni
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.