Prima le fintech, poi i trasporti. Continua senza sosta la stretta di Pechino sul settore privato. Stavolta a finire sotto la lente delle autorità è il tutoring scolastico, croce e delizia della classe media cinese.
Dalla scorsa settimana, misure ferree vietano l’apertura di nuove aziende e impongono a tutti i fornitori di corsi doposcuola già esistenti la registrazione come no profit, precludendo inoltre l’accesso ai mercati finanziari e agli investimenti stranieri, attraverso IPO o M&A. Ovvero a tutte quelle fonti di guadagno che per anni hanno permesso al settore di prosperare fino a raggiungere un valore di 120 miliardi di dollari.
Il diktat – nell’aria da tempo – arriva da molto in alto: i primi moniti sono rintracciabili nel “bestseller” del presidente Xi Jinping, The Governance of Cina. Con queste premesse c’è da aspettarsi tolleranza zero per i trasgressori. Ma il tintinnio delle prime manette non è garanzia di successo. Cambiare le cose non sarà facile con un sistema scolastico tra i più competitivi al mondo. Finché ci sarà domanda ci sarà offerta, spiegano gli esperti. Secondo la Chinese Society of Education, nel 2016 oltre il 75% degli studenti tra i 6 e i 18 anni usufruivano dei servizi ora proibiti, con costi per le famiglie intorno ai 17.400 dollari l’anno.
La posta in gioco è altissima. Non solo per via dei numeri. L’istruzione è il perno della mobilità sociale. Quindi del “Sogno cinese” e del modello meritocratico con cui Pechino aspira a rimpiazzare l’”American Dream”. Allentare la pressione scolastica sui più piccoli potrebbe non essere il principale cruccio dei policymaker. Da una parte, escludendo l’accesso ai fondi stranieri, si vuole impedire che le menti giovani – più permeabili agli input esterni – vengano plagiate dai valori occidentali. Dall’altra, permane la speranza che, riducendo i costi per l’istruzione, le famiglie cinesi siano più invogliate a incrementare la prole. Il tempismo è eloquente: i nuovi provvedimenti seguono a stretto giro l’introduzione della “politica dei tre figli” e l’annuncio dei preoccupanti dati demografici.
Da tempo il governo centrale lavora per migliorare la scolarizzazione nelle campagne. Ma l’istruzione di qualità – anche nelle megalopoli – è ancora un privilegio per pochi. Non più fabbrica del mondo, la Cina ha bisogno di forza lavoro qualificata per scalare la catena del valore. Il calo delle nascite, abbinato a una formazione inadeguata, rischia di compromettere il nuovo paradigma di sviluppo.
A ciò si aggiungono considerazioni di natura politica. Dopo anni di arricchimento glorioso la Cina, che si professa più comunista che mai, si trova a fronteggiare le storture del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Ridurre le diseguaglianze sociali è ormai una priorità. Lo dimostra la ricorrenza martellante della formula ormai familiare “prevenire l’espansione disordinata del capitale”. La stessa utilizzata per giustificare le indagini a carico di Ant Group e le varie big tech.
Rimane da vedere fino a che punto Pechino sarà disposto a sacrificare l’anima capitalista del paese. Soprattutto considerando che il tutoring offre un lavoro a centinaia di migliaia di persone.
Secondo Bloomberg, mercoledì si è tenuto un incontro ufficioso tra il vicedirettore della China Securities Regulatory Commission e le principali banche cinesi, salvagente nei momenti difficili. Argomento del giorno: il crollo delle borse di Hong Kong, Shanghai e Shenzhen. Dopo la stretta normativa sul settore privato, in tre giorni il mercato azionario cinese ha bruciato quasi 800 miliardi di dollari provocando scossoni sul tasso di cambio dello yuan e i titoli di Stato americani. Rassicurando sulla stabilità dei fondamentali economici, il Securities Times ha definito le recenti turbolenze un fenomeno passeggero: “il declino del mercato riflette un’interpretazione errata delle politiche e uno sfogo emotivo.” Comprensibile la preoccupazione delle autorità. A rischio non ci sono i capitali degli investitori istituzionali e dei colossi tecnologici, ma anche i risparmi di migliaia di cittadini cinesi che con l’altalena dei listini rischiano di vedere sfumare un altro importante “ascensore sociale.”
Di Alessandra Colarizi
[Pubblicato su il manifesto]Classe ’84, romana doc. Direttrice editoriale di China Files. Nel 2010 si laurea con lode in lingua e cultura cinese presso la facoltà di Studi Orientali (La Sapienza). Appena terminati gli studi tra Roma e Pechino, comincia a muovere i primi passi nel giornalismo presso le redazioni di Agi e Xinhua. Oggi scrive di Cina e Asia per diverse testate, tra le quali Il Fatto Quotidiano, Milano Finanza e il Messaggero. Ha realizzato diversi reportage dall’Asia Centrale, dove ha effettuato ricerche sul progetto Belt and Road Initiative. È autrice di Africa rossa: il modello cinese e il continente del futuro.