Elaine Jingyan Yuan, è esperta di infrastrutture digitali e processi culturali, nel suo recente libro “The Web of Meaning: the Internet in a changing Chinese society” esamina il ruolo di internet in Cina come spazio simbolico per la riproduzione di pratiche culturali.
Professoressa Yuan, quali sono i pregiudizi che i commentatori occidentali hanno nei confronti della sfera digitale in Cina?
Direi che il luogo comune più radicato è il considerare la censura di internet come argomentazione dominante. Capisco però che da un punto di vista liberal-democratico il tema della censura come ostacolo all’espressione pubblica debba essere parte dell’agenda dell’accademia occidentale. Ma osservando con attenzione il regime di regolamentazioni che gestisce internet in Cina si può notare quanto sia sperimentale e frammentato. È un regime complesso, le cui parti sono a volte in conflitto tra di loro. Quella della censura non è l’unica storia che vale la pena raccontare. Inoltre anche quando riconosciamo che la censura esiste in Cina, si dimentica che non è sempre promossa dal governo. Anzi, è una cosa che da un punto di vista strettamente applicativo avviene a livello delle piattaforme commerciali. Anche Facebook, Twitter e Google sono soggette a censura. È interessante notare che quando si pensa al ruolo di internet in rapporto alla sfera pubblica in Occidente ha tutto a che fare con la “disinformazione”, ed è dunque normale nella testa delle persone che sia un’ambiente controllato. Mentre quando si tratta di un paese comunista in uno stato autoritario, allora è dato per scontato che la censura sia un atto politico, e che sia qualcosa di malvagio.
Cosa ne pensa del rapporto tra Partito e big tech alla luce del giro di vite che il governo sta implementando contro queste?
Quella tra il governo e le big tech è una questione spinosa, soprattutto nei confronti dei sistemi di internet banking, un’infrastruttura che sta diventando sempre più influente nel regolare il flusso monetario in Cina. Da una parte il governo ha imparato a ricoprire il ruolo di stato-investitore, il che significa che invece di controllare completamente le aziende vuole diventare azionista e impiegare il capitale che ne deriva per controllare la situazione. Dall’altra il Partito è determinato a non lasciare il capitale circolare liberamente. Ne è un esempio la posizione che il governo centrale ha preso nei confronti del settore finanziario di Alibaba, Ant Financial, intervenendo nella quotazione in borsa dell’azienda.
Vorrebbero tenere tutto in casa…
Sì, quando si tratta di sistemi bancari penso che tutti i governi in tutto il mondo vogliano avere il controllo di questo aspetto. La differenza con gli Stati Uniti è che il sistema bancario è più orientato verso la logica di mercato. Il governo cinese invece, dato il suo nuovo ruolo nell’economia capitalista globale, vuole essere più aperto ma al contempo non vuole essere troppo audace troppo in fretta. Deve rimanere cauto per evitare disastri irrecuperabili.
Nell’universo digitale cinese ci sono diversi attori in gioco: il Partito, le big tech e gli utenti per menzionarne alcuni. Come pensa sarà l’internet della Cina 2035?
La governance di internet in Cina è davvero complessa, soprattutto adesso che ci sono queste grandi aziende tecnologiche come Tencent, Alibaba e Bytedance. La domanda da porsi è quanto davvero queste aziende possano considerarsi veramente cinesi. Molti dei loro investitori sono stranieri. Addirittura nel caso di Tik Tok è all’estero che l’azienda macina più fatturato. L’unico elemento che ci ricorda che sono aziende cinesi è la nazionalità dei loro fondatori. Dal punto di vista della proprietà, degli investimenti e della condivisione dei profitti non c’è assolutamente controllo da parte del governo centrale. Quindi c’è da chiedersi quanta sovranità lo stato abbia effettivamente su queste aziende. L’economia digitale in Cina è oggi fondamentale e il governo cinese vuole sfruttare la forza di mercato che questa ha messo in moto. Lo ha fatto con una serie di politiche che riguardano l’innovazione di massa e l’internet+, incoraggiando quindi lo spirito imprenditoriale. Gli imprenditori oggigiorno sono elevati a un ruolo importante nella società, a differenza che in passato. Come è successo per esempio a Jack Ma e Pony Ma. La Cina ha provato ad assorbirli nell’élite di Partito e cerca così di ascriverli al sovranismo del governo centrale. In questo senso gli imprenditori cinesi hanno avuto decisamente ampia libertà di agire, ma hanno dovuto giocare stando al regime non solo del governo ma anche del mercato internazionale. E a volte faticano a mantenere un equilibrio tra i due.
Trova che questo equilibrio sia stato compromesso?
È un conflitto che sta diventato sicuramente più evidente e ampiamente pubblicizzato. C’è poi il discorso dei dati, che la Cina considera strategici e che hanno a che fare con la sicurezza nazionale. La Cina è sempre stata sulla difensiva su questo e il governo molto cauto. Adesso poi, richiede alle aziende tecnologiche cinesi di mantenere i dati raccolti all’interno della Repubblica Popolare. È anche vero che ci sono aziende tech come Huawei che di recente ha costruito centri per la sicurezza dati all’estero. Questo ci dice che ci sono in gioco degli attori, il cui mercato è a livello internazionale, che riescono a tenere separati i requisiti governativi a cui devono attenersi e i loro obbiettivi commerciali.
I social media cinesi sono piattaforme dove sottoculture pop e meme sovversivi hanno modo di dispiegarsi. Ne sono un esempio i recenti movimenti giovanili del “996”e del “Tangping”. Come si inserisce il governo cinese in questa dialettica? Ascolterà i bisogni dei suoi giovani?
Il governo cinese ha fin da subito colto la potenzialità di internet di fornire un tipo di comunicazione diretta e non filtrata dal basso verso l’alto. In un sistema centralizzato come quello cinese il flusso di informazione tra governo locale e governo centrale è complicato da gestire e spesso ai vertici arriva solo quello che vogliono sentirsi dire. La Cina prova quindi ad accogliere attivamente internet e nei documenti ufficiali lo indica come “un ponte tra il governo e il popolo”. La società cinese è sempre più diversificata e diversificati sono questi fenomeni culturali. Quello del 996 è una reazione contro le politiche di sfruttamento nel mondo dell’high tech e credo che abbia a che fare con il retaggio socialista del paese. Il Tangping invece, o il suo antecedente Diaosi, è un movimento dall’energia meno positiva, va contro quello che il governo promuove. Ed è qui che il Partito assume un atteggiamento paternalistico nei confronti dei cittadini. Non vuole necessariamente censurare ma vuole guidare quasi come fosse un genitore. Non lo fa tramite ordini ma con calde raccomandazioni, ergendosi a guida morale dei cittadini.
Possiamo dire che la Cina stia provando a creare un internet armonioso in una società armoniosa?
Assolutamente sì, questo è esattamente l’obiettivo della nuova generazione a partire dall’amministrazione Hu- Wen, che dopo decenni di ineguaglianze, inquinamento e corruzione ha cercato di portare stabilità sociale. Gli ufficiali del governo locale una volta venivano valutati in base alla crescita del Pil. Oggi invece ci sono più parametri: la società deve avere crescita economica, ma bisogna anche stare attenti all’ambiente, alla corruzione e all’opinione pubblica.
Si è appena celebrato il centenario del Partito Comunista. Negli ultimi mesi è stato osservato che su internet è stata fatta pulizia di contenuti, tanto che qualcuno parla di revisionismo storico in preparazione per questo anniversario, cosa ne pensa?
Sì, l’ho notato anche io. Ultimamente se comparivano su internet commenti che mettevano in discussione la reputazione di personaggi storici importanti per la storia del Partito si veniva direttamente multati o arrestati. Percepisco decisamente un controllo più serrato della sfera pubblica. Molti rimandano questa cosa a Xi Jinping. Credo che in realtà questa cosa provenga a volte dai veterani del Partito, che provano ad anticipare cosa potrebbe o non potrebbe piacere a Xi e decidono di censurare in modo massiccio. Penso che il governo abbia guadagnato sicurezza dall’aver gestito con successo la pandemia e adesso si permetta di essere più sfrontato nell’utilizzare la mano pesante in queste azioni di censura. Sicuramente per celebrare questo momento vuole che ci sia un ambiente armonioso anche online.
Giornalista praticante, laureata in Chinese Studies alla Leiden University. Scrive per il FattoQuotidiano.it, Fanpage e Il Manifesto. Si occupa di nazionalismo popolare e cyber governance si interessa anche di cinema e identità culturale. Nel 2017 è stata assistente alla ricerca per il progetto “Chinamen: un secolo di cinesi a Milano”. Dopo aver trascorso gli ultimi tre anni tra Repubblica Popolare Cinese e Paesi Bassi, ora scrive di Cina e cura per China Files la rubrica “Weibo Leaks: storie dal web cinese”.